Fellini, restauratore di un Satyricon tardivo

Sicuramente ora andrà a finire che lo banalizzerò, il che capita con il 90% delle tematiche che affrontiamo. Prendi Pirandello ed è la maschera, mentre sarebbe poi bello saperne qualcosa in più e magari parlarne di questa incomunicabilità, che mica è cosa da niente. Avere il sospetto precoce che l’uomo non è che un universo, e allora 7 miliardi di uomini non sono che 7 miliardi di universi costantemente in collisione, e non potrai sperare che il tuo dolore verrà degnamente compreso, che la tua forza sarà la forza di un altro. Nemmeno nell’amore. Ma forse nella sympatheia, un concetto greco che oggi tendiamo a smorzare in simpatia, mentre se solo la avessimo la bellezza in germe degli antichi sapremmo che, effettivamente, vuol dirci starci dentro, ma insieme. Essere insieme nello stesso dolore, nello stesso patimento, nella stessa malinconia, essere nello stesso amore e non fare altro per anni. Che è poi la forma più alta d’amore.

Non che volessi divagare, questo no. Semplicemente, tendiamo per una proprietà di inerzia e di semplificazione imbarazzante e tipicamente umana troppo umana a ridurre al minimo essenziale quello che è un più ampio respiro. Il che a volte è conveniente, a volte dispersivo. Nel senso che perde. E quindi tenterò in questo Barnum di scrivere di un latino, facendo un po’ il greco. Perchè i greci avevano la bellezza del togliere. Prendevano un blocco di marmo, e partorivano la bellezza mediante il gesto del levare, lasciando al fine qualcosa un tantino di meno di quello che sarebbe stato troppo, senza il superfluo ma con lo stoico distacco dell’armonia. Là era bellezza, ma senza sangue.

Quindi, scarnifichiamo: un Barnum su Fellini, nella sua ombra il Petronio vecchio di secoli e chissà chi fu.

 

Quel Petronio che seppe narrare con sfacciataggine grezza il mondo che lo circondava, ma senza lenti, senza metafore se non scurrili, senza guanti o medicamina. Semplicemente guardava al grande spettacolo del circo intorno, che fosse Roma o che altro- Barnum, quell’uomo è l’inventore del Barnum-, e con infinita cura catalogava e dipingeva lo scibile umano cogliendone gli infimi segreti nelle briciole di sudore sui talami, nelle orge di vino che si spargeva sui seni nudi e tra le ugole asfissiate da Venere, Bacco e dall’ingordigia famelica delle più forsennate lupe carche di cupidigia. Dipingendo e tessendo diede vita a quello che doveva essere un capolavoro dell’antichità ed uno spicchio in cui si specchiava la società del tempo, fatta di lascivia ma disincantata, con la bellezza del sorriso sardonico dell’autore che sa dove colpire senza fare male, senza condanne, senza troppi moralismi, trovandosi forse una macchia di vino tra i capelli, arrivando poi a suicidarsi con la stessa giocosità che era al fine tutta nei personaggi del suo Satyricon.

Doveva essere un capolavoro, oggi sono frammenti.

Se non altro abbiamo la pellicola che ne ha tratto Fellini, Satyricon per l’appunto, uno dei suoi pochi film nato sulle ceneri di un’opera letteraria, di cui per l’appunto non sono rimasti che l’esile traccia e i nomi dei personaggi principali.

Fellini riesce ad estrapolare ed utilizzare con efficacia disarmante il pennello e le tinte del Petronius arbitrer elegantiae, intrecciando situazioni e fatti paurosamente adatti a rappresentare l’idea della morte (di cui i protagonisti si fanno bizzarri portavoce, cercando di mitigare l’incubo nero cogliendo l’attimo inteso come un tuffo nel vino e via di sesso), l’irrazionalità dell’esistenza, la malinconia della vita, la sessualità prorompente, anche nelle sue manifestazioni più perverse. E così tutte le scene sono ostruite efficacemente da una cappa di cupa pesantezza, di lentezza morbosa in una dimensione di glaciale indifferenza resa anche dalla freddezza cromatica volta a emulare la tavolozza Petroniana ma anche romana del tempo. Un’asma acuita dalle mille portate in tavola, dai corpi nudi che non sono più armonia ma rotondezze rinascimentali scadenti e precoci, la tanatos che si infila in ogni buco senza lasciare adito al respiro. Roba che ti toglie il fiato, roba che è inquietudine. E’ come guardare un quadro dei metafisici, quelli con i manichini e le pareti troppo strette per tutto quel marasma di anatomia deforme. Come se i personaggi fossero statute o burattini, e lì vedì, la, i fili nelle mani scheletriche di una maschera nera.

Dama itaque primus cum pataracina poposcisset: “dies , inquit, nil est. Dum versas te, nox fit”

(Petronio, Satyricon XLI; <<Dama per primo, dopo aver chiesto una coppa più grande esclamò: “il giorno è quasi nulla; non appena ti volti, è subito notte”)

Nessun personaggio petroniano si conforma con i valori superiori: non c’è responsabilità e nemmeno ricerca del senso della vita, ma è pura pulsionalità che si esprime liberamente attraverso l’istinto, lontano dalla coscienza. È passionalità senza ragione, è fuoco, è sesso e carne, è tutto quello che di sporco c’è e per questo attira, ma non per un proibito quanto per un concesso, ribaltando l’ordine aspettato e psicologico. Diceva Cicerone nella sua Pro Mureno di lasciare correre i giovani verso le tentazioni come puledri, dico io, come puledri, per poi vederli tornare come cavalli, dico sempre io, domati e fieri di valori stranieri appresi chissà dove, eppure giusti, maledettamente giusti, ed è questo l’indicibile, vivere nel letame e poi nascere fiori. Ma da soli, è questo lo stupefacente, riuscire a darsi una dignità da soli. Ma nel Satyricon, sia di Petronio che di Fellini, non c’è traccia di un riscatto: i personaggi fluttuano in un mondo che non è capace di provare sentimenti e che soprattutto non prova il bisogno di soffrire per la miseria o il dolore altrui. Sbandano, e più sbandano più amano questo modo di stare al mondo, scendendo negli abissi e rimanendo tra le alghe, innamorati e dannati. Bellissimo.

Tutto si riduce all’unica fonte che ci rende vivi: il godere. Nel sesso, nel cibo, nel pieno. E allora bevi e scannati sul paidion di turno, che domani morte è. Chi vuol esser lieto sia, quel concetto lì. Non è proprio una cosa più edonistica ma moderata alla Orazio.

Principale novità di Fellini è l’episodio del labirinto con la lotta tra Encolpio e il Minotauro, evidente richiamo al mito di Teseo e Arianna inteso come un riferimento ad una delle tematiche del romanzo petroniano, in quanto le peripezie che i protagonisti massimi devono superare sono presentate come un “labirinto”. Ecco perché il Satyricon- o almeno, quel che ne rimane- piace. I giovani vivono un continuo perdersi e ritrovarsi, sbandano e si innamorano, fanno schifo e sono meravigliosi e rimangono puledri tutta una vita.

Esattamente come noi.

 

Avviene nel Fellini Satyricon il contrario di quello che solitamente è l’adattamento, che di norma si sovrappone al concetto di riduzione cinematografica.

‘Come tentare di ricostruire un’anfora antichissima con i cocci ritrovati secoli dopo’,

(F. Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino 1980).

C’è di bello in questo. Fellini, di grande, ha fatto questo. Ha preso i cocci di quello che doveva essere un capolavoro. L’ha declinato. Ci ha dipinto un po’ sopra.

E poi l’ha reso tale.

 

A cura di Arianna Mariolini

 

Arianna Mariolini

Mi chiamo Arianna Mariolini (Ary). Sono nata il 6 gennaio 1998 a Clusone, in provicia di Bergamo, ma attualmente risiedo a Pisogne, un bellissimo borgo bresciano. Dal settembre del 2012 frequento il Liceo classico Decio Celeri di Lovere. Le mie principali passioni sono la letteratura e la musica...