Pirandello : sotto la maschera chissà

Se dovessi parlare di Luigi Pirandello userei una frase.

Una sola.
Bellissima.
O comunque ch’ io trovo bellissima, e un po’ struggente, di quella bellezza barbarica, cattiva e necessaria.
Non è sua, comunque, la frase, ma di sua madre.
La scrisse in una lettera.
Datata “Porto Empedocle, 21 gennaio 1889“.
Alla figlia, Lina.

“Luigi ci scrive assai di rado ed io non trovo
pace perchè so che la sua vita è seminata di
 spine, ma vedo che non vi è rimedio, essendo
 così formata la sua natura. Quanto sarei stata
più contenta se fosse stato meno intelligente e
avesse pouto vivere la vita dei viventi!”

 

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Chissà se lo sapeva, la signora Pirandello dico, chissà se lo sapeva, che quelle parole erano belle. Che c’avevano questa loro dignità, un qualche valore.

Ecco, se io dovessi parlare di Pirandello direi questa frase, che tra l’altro è anche l’incipit di uno dei più bei libri di Andrea Camilleri-quello del commisario Montalbano? Sì quello del commisario Montalbano- che è “Il figlio cambiato“, sottotitolo aggiunto: Biografia di Luigi Pirandello. Di cui, quindi, vi consiglio fortemente la lettura.
Già il titolo è qualcosa di sublime e tragico.
Il figlio cambiato. Cambiato da cosa? Da un’aspettativa, da un percorso. Da quello che avresti voluto che fosse, e che invece non è e mai sarà. Dal sentimento di una normalità, dal risultato alfine di un’incapacità triste, dolcissima e necessaria di non sapere – nè forse volere e potere – vivere la vita dei viventi. Il figlio diverso. Ed è una cosa da cui non si può uscire mai, anche a rapporti sanati. Tu sei il figlio cambiato, e basta. Non hai saputo indossare il costume, l’etos greco predisposto da quella dannatissima domus paterna, e allora basta, hai perso e non c’è sconfitta più bella. Per sempre dannato ad essere il disastro fuori dalle aspettative, con quegli sguardi di cattiveria amorosa addosso, a cui non c’è forza che regga.
Ed è rabbia grezza e basta.
Ci sono due bellissimi scritti di Pirandello, “Il figlio cambiato” (1902, novella) e “La favola del figlio cambiato” (come testo teatrale nel 1934), in cui si narra di una credenza popolare siciliana, secondo cui delle streghe vanno in giro a sostituire nelle culle i bambini belli e sani con altri deformi e malaticci. Secondo Andrea Camilleri appunto queste non erano altro che allegorie sotto cui si celava il letterato siciliano. Era lui a sentirsi scambiato nella culla, lui ad essere cresciuto dove non doveva. Non vedeva, o forse voleva ignorare le somiglianze fisiche, quel pizzetto nero e quel mento allungato, gli occhi un po’ dolci, un po’ tristi, un po’ dolcemente tristi. Ed oltre ad una famiglia sbagliata, Luigi sentiva profondamente di essere nato in un non luogo, o meglio, in un posto che non esiste. Avrebbe dovuto nascere difatti a Porto Empedocle, che fu però a quel tempo colpito dalla diffusione del colera, e che portò la famiglia Pirandello a trasferirsi in una tenuta di campagna, in un luogo che è un po’ uno sputo di Iddio – se solo Iddio sputa – un po’ tipo le macchie sbagliate.
Però lo sputo una specie di nome ce l’aveva. Si chiamava Cavusu, più tardi Caos.
Ed anche qui il Pirandello troverà un espediente per trasformare la coincidenza in arte, metaletteratura, poesia.

“… Io dunque son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco, denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti. Colà la mia famiglia si era rifugiata dal terribile colera del 1867, che infierí fortemente nella Sicilia. Quella campagna, però, porta scritto l’appellativo di Lina, messo da mio padre in ricordo della prima figlia appena nata e che è maggiore di me di un anno; ma nessuno si è adattato al nuovo nome, e quella campagna continua, per i piú, a chiamarsi Càvusu, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Xáos.”

Pirandello era uno che c’aveva la sfiga di amare qualcosa che non era amato da colui che lui amava.
O, per meglio dire, c’aveva sto pallino della letteratura, mentre il padre un figlio letterato non ce lo voleva. Anche se alla fine gli studi per lettere glieli pagò, forse memore di quello sputo.
Non quello di Iddio, ma quello sputo di un caldo d’estate, quando lui, Luigi, un bambino che di lì a qualche ora sarebbe divenuto ragazzo, sputò in viso alla sua amante, del padre, dico.
Roba da sorridere invece da piangere- e a ben vedere, l’umorismo Pirandellinano, ovvero il sentimento del contrario, è proprio questo: ridere ridere e poi scoprire lo schifo sotto il comico. E piangi piangi piangi.
Roba da sorridere e..

E quel ragazzino, uno sputo, il viso di lei, puah-è giusto puah per uno sputo?

 

Era religioso, il piccolo Luigi. Di una religione che andava sfiorando con i polpastrelli polvere di ridicolo. Fu una serva di famiglia ad inculcargliela, comprendendo anche credenze superstiziose fino a convincerlo della paurosa presenza degli spiriti.
Si allontanò da questo mondo per un avvenimento apparentemente di poco conto. Apparentemente.
Tutto, nella vita di uno scrittore, ha un peso inversamente proporzionale alla bazzecola altrui.
Accadde che un prete aveva truccato un’estrazione a sorte per far vincere un’immagine sacra al piccolo Luigi; anzichè gioirne, questi rimase così deluso dal comportamento inaspettatamente scorretto del sacerdote che non volle più avere a che fare con la Chiesa, praticando una religiosità del tutto diversa da quella ortodossa. Vivendo d’arte. Pura e semplice. Senza luce. Mai più.
E forse anche vivendo d’amore

Di amori Pirandello ne ebbe pochi, secondo quanto ci è dato sapere.
Pochi ma intensi.
Un amore in Sicilia, quando ancora il pizzetto non v’era. Lei lo respinse, e le gote di lui prima divennero rosse, e poi allor bianche, emaciate. Era lì lì per morire, là in un letto qualunque, e divenne vera e propria malattia. Quando la rivide, anni dopo, abbassò gli occhi e divenne ancor rosso, e poi bianco e

e non si guarisce da certe cose. Un po’ mai.

Nella città tedesca alla fine di gennaio del 1890 conobbe a una festa in maschera la giovane Jenny Schulz-Lander, della quale si innamorò e con cui andò ad abitare nella pensione tenuta dalla madre della ragazza. A lei dedicherà i versi di Pasqua di Gea dove la descriveva come «lucifera fanciulla, tu che il mio tutto sei e pur, forse, sei nulla» e la ricorderà anche nei versi di Fuori di chiave: «Fuori la neve eterna fiocca; / piano l’uscio s’apre e, un dito in bocca, / entra scalza Jenny…»

Quarant’anni dopo, Pirandello ormai famoso, durante un soggiorno a New York ricevette un biglietto, a cui non rispose, da Jenny, che nel frattempo era diventata scrittrice.

Si guarisce sempre, infine.

Poi ci fu lei.
Maria Antonietta Portulano.
Capita un po’ a tutti-ai più fortunati, e poi dannati, questi sì- di incontrare qualcuno che, prima o poi, va a finire che la vita te la cambia. Qualcuno che arriva è sembra solo una bella ennesima presenza in un concatenamento ordinario e lineare di eventi fasulli, e invece tack, lei arriva e ti sconvolge un’esistenza. E tutto diventa un eterno ritorno per i primi tempi. Che ti rincoglionisce e basta. Rincoglioniti ma belli.

 

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E quindi arrivò Maria Antonietta Portulano. I primi anni furono appunto felici, ogni giorno. Era un matrimonio combinato in cui l’amore aveva avuto l’intuizione di porre nido, e la felicità era all’ordine del giorno, e tanto leggera e senza troppo rumore. I problemi iniziarono più tardi, quando l’amore trovò la compagnia di una bieca follia.
Forse complice anche l’ingente perdita della di lei dote, Maria impazzì. Era cattiva, gelosa, perfida come solo il male che ti mangia da dentro può.
Odiava ogni donna che guardasse Luigi, odiava la figlia che era da lui tanto amata, odiava le studentesse a cui lui insegnava e odiava lo stesso Luigi per quella bontà che aveva indosso, per quella persistenza che aveva lui a non detesarla ma anzi a coltivare quel che tra loro rimaneva e poteva ancora sbocciare, senza arrendersi mai, non prima almeno del 1919, quando acconentì a portarla in una clinica per malattie di plastica.
La amava e quel fiore cresceva, malato, ma cresceva con persistenza, con lentezza, con un ardore che solo l’amore può, in fondo.
Eppure era bello, Luigi Pirandello.
Non del genere vistoso, di quello che ti giri a guardare. Più semplice.
Aveva quel non so che di sogno negli occhi, quella durezza ricercata che infondeva fascino nell’intera figura, quel modo di spiegare che attirava le alunne.
Una addirittura dopo esser stata lasciata dal ragazzo, per ripicca e forse per un po’ di fuoco dentro-non fiore, fuoco- restò in classe dopo le lezioni, e poco prima che Luigi se ne andasse si tolse il vestito e le chiese di farla sua.
Fammi tua. Ma detto con rabbia dolce.
Bisogna immaginarselo così, detto con rabbia dolce.
Fammi tua.
E poi quest’uomo che la guarda, giovane, bellissima, un fuoco, a casa la moglie malata che la notte prima era di fianco al suo letto, in piedi, un coltello in mano, che se solo lui non si fosse svegliato l’avrebbe ucciso.
Quest’uomo che si avvicina, le sfiora una guancia ancora morbida, si china ai suoi piedi, e con quelle dita da scrittore-non ci sono mani più belle se non quelle di uno scrittore-
si china, e

 

la aiuta a rivestirsi.
Sorridendo. Fatto con un sorriso triste.
Bisogna immaginarselo così.

Questa è stata la strada di Pirandello, quella più nascosta ed intima, forse un poco più buia, un poco più suggestiva. Un piccolo sentiero che ha dato vita a grandi opere, con i suoi drammi, le sue pazzie e quei giorni no pieni di blu notte.
A volte con la bellezza del senza stelle.
Mi è piaciuto percorrerlo così, senza parlare del noto Nobel, delle sue opere famose o delle cose stra conosciute. Ho preferito così. Analizzare l’uomo dietro la maschera, ed i suoi amori, le sue rughe, le sue lumie della Sicilia.
Quella maschera che si crepò il 10 novembre 1936, con una morte un po’ stanca, indossata con passività, consapevole che nella sua vita aveva già creato i suoi giganti più belli.

Pirandello aveva 69 anni, e aveva già subito due attacchi di cuore; il suo corpo, ormai segnato dal tempo e dagli avvenimenti della vita, non sopportò oltre. Al medico che tentava di curarlo, disse: «Non abbia tanta paura delle parole, professore, questo si chiama morire».

 

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Ma detto con dolcezza.
Bisogna immaginarselo detto con dolcezza.
«Non abbia tanta paura delle parole, professore, questo si chiama morire».
Con dolcezza.

 

Arianna Mariolini

Mi chiamo Arianna Mariolini (Ary). Sono nata il 6 gennaio 1998 a Clusone, in provicia di Bergamo, ma attualmente risiedo a Pisogne, un bellissimo borgo bresciano. Dal settembre del 2012 frequento il Liceo classico Decio Celeri di Lovere. Le mie principali passioni sono la letteratura e la musica...