Il Barone Rampante : storia di un’anima fragile

Il Barone rampante è un romanzo di Italo Calvino pubblicato nel 1957.. ve ne parliamo in questo articolo!

A cura di Arianna Mariolini


“Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così.”

Mi piace. Ecco, è banale e scontato ma davvero, mi piace.
Sarà che racchiude una di tutte quelle cose che c’è da dire su una realtà ineffabile quale l’amore, che tuttavia rimane il nucleo da cui scaturiscono tutti i libri. Perché nessun libro nascerebbe senza amore. Come un figlio, in un certo senso. Senza amore non se ne fa nulla. E questa frase, ecco, mi piace. Perché qualunque cosa sia l’amore, non è mai egocentrismo. E’ la consapevolezza di sé, acquisita solo in seguito alla consapevolezza dell’altro. E’ riconoscersi, sentirsi la metà di un intero che, quando scompare, si porta via anche te.
E Calvino lo racchiude in due righe così belle (nonostante non siano il fulcro metaforico del romanzo), qui, ne “Il Barone Rampante”, esattamente 59 anni fa.
Mi pareva una degna introduzione, ecco.

15 luglio 1767.
Cosimo Piovasco di Rondò, questo nobil signorotto di anni 12, che un giorno litiga col padre per il rifiuto di mangiare a pranzo un piatto di lumache.
E allora, come tutti i bambini, si impunta e piange e urla, e si incaponisce, mette il broncio, minaccia.
Solo che Cosimo non è un bambino, ma il frutto della fantasia del Calvino, che abile pittore, con lo stilo lo dipinge, nero su bianco, un piccolo mondo su carta, e lo trascina e lo innalza e lo comanda, a mo’ di marionetta. Solo che Cosimo è Calvino, e allora se Cosimo minaccia di passare tutta la sua vita sugli alberi per questo affronto di molluschi non ingeriti, allora non resta da far altro che crederci e vederselo già saltellare tra fronda e fronda, senza più ombra di lumache.
Cosimo dunque sale sugli alberi, per non scendere mai più.
Letteralmente, mai più.

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E quello che era capriccio diviene un pretesto poetico per una riflessione di più ampio respiro, ben più profonda di un semplice orgoglio, di un semplice nobile inselvatichito che tra le fronde cammina, legge, caccia e si innamora.
Mi vien da paragonarlo al Leopardi, all’Alfieri, al Baudelaire, a qualsiasi giovane-adolescente che è troppo fuori misura, troppo fragile o troppo ribelle per saper vivere, per sapersi adattare a un mondo che non è suo, che a causa della sua personalità troppo debordante, troppo.. troppo, non lo sa e non lo può accogliere.
Cosimo non può adeguarsi a una realtà sterile, dove ogni cosa è fatta secondo norme sociali, obblighi morali e costrizioni volute dalla gente e da uomini modellati dalla morigeratezza, in un mondo dettato da quella vile prudenza “che ci agghiaccia, ci lega, ci rende impossibile ogni grande azione”, non può vivere in qualcosa che lo attanaglia, e allora fugge.
C’è chi fugge leggendo, chi scrivendo, chi con la musica e chi con la morte.
Lui ha preferito una fuga fisica, salendo letteralmente nel cielo (non a caso il libro si concluderà non con la sua morte, ma con uno sfondo: lui attaccato a una mongolfiera, che vola lontano, il cielo azzurro che lo accoglie come il mare placido ed assorto sotto di lui). Salendo appunto letteralmente e metaforicamente, una salita che diventa espediente causa soffocamento.
Il mondo non gli pareva fatto per lui.
E allora lui si fa un nuovo mondo.
E non è che sia facile, ed è questa la grandezza del romanzo.
Quanta, quanta bellezza ci può essere nella fuga di un ribelle, una fuga dettata dalla paura?
E quanta bellezza nella paura che è tanto forte che deve trovare ripiego non nella morte, ma nella vita, nella creazione di un nuovo spazio, un nuovo angolo dove riesci a vivere, e non sei più un inetto, un incapace, un te stesso che ti faceva paura.
Perché questo è, la metafora fisica di Cosimo, aveva paura del diverso, ma non in quello degli altri, non in quello che l’ha spinto a fuggire. Cosimo aveva paura della proprio diversità. Cosimo aveva paura di sé.
Si terrorizzava a morte. Ci terrorizziamo vedendo la nostra grandezza debordante e fuori misura, è un terrore che ci attanaglia, perché non riusciamo ad incanalarla, a trovare il giusto sfogo, e diveniamo di noi stessi prigionieri, senza soluzione.
E l’unica soluzione per un bambino già grande è quella di costruirsi il mondo, anch’esso fuori misura, ma tuttavia su misura per lui.
Trovare la sua strada in questo pasticcio, e la difficoltà di darsi regole, di iniziare a vivere per davvero per non morire in te, di essere felice, addirittura. La difficoltà di sapersi ora stare al mondo, ma un mondo che è tuo, ed è per questo che raramente Cosimo volge lo sguardo a terra. Quel mondo non gli appartiene più, non può mirarlo senza pensare che in realtà è ancora incapace, perché il suo mondo non sarà mai reale, è ideale, è presente e inesistente, perché è solo, pieno di solitudine, e allora eccolo ricadere in un circolo vizioso, perché il problema di Cosimo sussiste. Cosimo non sapeva vivere con gli altri, ma ciò non scompare per una salita sugli alberi, non scompare solo perché abolisci gli altri, non scompare se non sai ancora vivere solo con te stesso. Non hai vinto, hai solo coperto il resto con un velo per non vedere, ma tu sai cosa si nasconde sotto, e cresce la paura leopardiana della consapevolezza, cresce l’odio di sé, ed è una macabra danza circolare.
Ma necessaria per illudersi, almeno un po’.

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Forse secondo Calvino ogni inetto dovrebbe trovare la sua strada, crearsi il suo mondo, avere la forza e la capacità di vincere la massa, perché non è concepibile il concetto di massa felice se esiste anche un solo individuo infelice.
Una vittoria momentanea, almeno.
Forse ogni incapace di vivere dovrebbe crearsi un mondo per non morire.
Un’illusione momentanea, almeno.
E chissà quanti mondi, allora.
Tutti in collisione, e chissà se potrebbero muoversi, conoscersi, relazionarsi, unirsi.
E forse vi sarebbe un ideale mondo di inetti divenuti capaci, solo per un attimo però.
Un’utopia irrealizzabile. Sarà che vedo pochi fragili. O fragili che fingono e non creano mondi. O forse sono tutti fragili che stanno facendo questa danza macabra, per cui hanno finito il compimento del loro mondo, e per un po’ si trovano incapaci e punto e a capo.

Pochi giorni fa Alessandro D’Avenia ha pubblicato il suo nuovo libro.
“L’arte di essere fragili.”
Chissà, se oltre al Leopardi, l’emblema, ha pensato a Cosimo, e a quel che fu
“Il Barone Rampante”.
Chissà se ha capito che la fragilità non trova scampo.
Mai.

 

 

Arianna Mariolini

Mi chiamo Arianna Mariolini (Ary). Sono nata il 6 gennaio 1998 a Clusone, in provicia di Bergamo, ma attualmente risiedo a Pisogne, un bellissimo borgo bresciano. Dal settembre del 2012 frequento il Liceo classico Decio Celeri di Lovere. Le mie principali passioni sono la letteratura e la musica...