Sgt. Pepper’s e il genio dei Beatles

Immaginate la sala di un teatro importante, come il Royal Albert Hall, e tanti musicisti di un’orchestra che iniziano ad accordare i propri strumenti.
Ecco, è così che inizia, nel 1967, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.

 

A cura di Roberto Testa

 

Descrivere un lavoro del genere è davvero complesso, perché non sai mai da dove iniziare. Forse il nome può darci qualche suggerimento : La banda dei cuori solitari del Sergente Pepper (Pepe). E’ abbastanza curioso, inusuale e non molto semplice da memorizzare, ma tutto ritornerà quando ascolteremo il primo pezzo, che dà il nome all’album.

Se prendiamo il nostro LP, ci imbattiamo subito nella copertina più emblematica della storia della musica. Tolti i numerosi “indizi” che, secondo alcuni critici, sarebbero delle prove disseminate appositamente dai Beatles per dimostrare la presunta morte del bassista Paul McCartney, troviamo rappresentate tantissime personalità famose, coeve e non dei Beatles. Abbiamo ad esempio Bob Dylan, Marilyn Monroe, Karl Marx, Marlon Brando, ma anche personaggi meno noti come qualche guru indiano o qualche attore statunitense. Insomma, sono tutti lì, Beatles inclusi, in una posa piuttosto seriosa, ad assistere a chissà cosa. Addirittura, sulla sinistra, troviamo anche le statue di cera degli stessi Beatles, che sembrano compiangere la morte di qualcuno.

Superata la curiosissima copertina, straricca di colori (realizzata da Peter Blake), ci addentriamo nell’ascolto.
It was twenty years ago today, Sergeant Pepper taught the band to play.
L’intento è chiaro dal primo minuto. Questo buffo sergente chiama una banda attorno a sé, un gruppo di anime solitarie alla ricerca di qualcosa che possa renderli felici. E in effetti trovano il pubblico adatto, perché si ride, si scherza, e alla fine del primo pezzo arrivano gli applausi.
We hope you will enjoy the show!
Lo show inizia subito con un pezzo cantato dal batterista Ringo Starr, With a little help from my friends. Questo è l’unico pezzo dei Beatles che la maggior parte delle persone conosce grazie ad un altro artista : infatti i Beatles avevano smesso di suonare dal vivo, e il primo ad eseguire questo pezzo fu Joe Cocker, in un posto chiamato Woodstock, nel 1969. Inutile ricordare chi sia poi diventato Cocker dopo quella storica esibizione.

Molti definiscono Sgt. Pepper’s l’album psichedelico dei Beatles. Per me non è così (credo sia invece il caso di Revolver), ma sono concorde nel dichiarare Lucy in the Sky with Diamonds uno dei pezzi più psichedelici dei Beatles. I suoni sono di un altro pianeta, quello degli allucinogeni così cari ai nostri Fab Four, e l’effetto prodotto è quasi celestiale, aggiunto ad un testo veramente surreale firmato John Lennon. Tra le altre cose, Lucy, il più antico scheletro umano ritrovato sulla terra, si chiama così proprio perché in quel momento gli archeologi stavano ascoltando la canzone dei Beatles.

 

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Ci si risveglia un attimo dal sogno psichedelico, ed è già primavera. Getting better è un pezzo di Paul McCartney, che riprende la famosa e ripetuta citazione di Jimmy Nicol, uno dei tanti sostituti di Ringo Starr nel 1964. Qualsiasi cosa gli chiedessero sulla sua salute, lui rispondeva “It’s getting better!”. Durante le registrazioni di questo brano, avvenne un incontro che può sembrare storico, ma che effettivamente non significò molto : infatti, vennero presentati ai Beatles i Pink Floyd, giovane gruppo londinese alle prese con le registrazioni del primo album, The Piper At The Gates Of Dawn.
Paul poi si siede al clavicembalo e suona un paio di accordi : così nasce Fixing A Hole, brano completamente maccartiano, in cui un disorientato Lennon suona le maracas e raddoppia qualche coro. I’m fixing a hole where the rain gets in, and stops my mind from wandering where it will go. Dove andrà?
E qui assistiamo ad un capolavoro firmato ancora una volta da McCartney; probabilmente è il pezzo più dolce ma anche malinconico dell’intero album : She’s leaving home. È la vera storia di Melanie Coe, una ragazza di 17 che abbandona i propri genitori per avere una vita che, purtroppo, alla fine, non la accontenterà. Lo zampino di Mike Leander, che sostituisce in questo pezzo il produttore George Martin, si sente nell’arrangiamento attraverso l’accompagnamento di due quartetti di archi e addirittura di un’arpa.
She’s leaving home, bye bye.
Ma, ad un certo punto, si crea un contrasto incredibile. Dal pezzo più triste si passa ad uno dei pezzi più strani e divertenti : Being for the benefit of Mr. Kite! Non è altro che uno spettacolo di circo dell’età vittoriana, e lo si capisce subito dall’atmosfera creata dal gruppo. Il lavoro di registrazione/editing non fu semplice e le sovraincisioni furono parecchie tra pianoforti, Wurlitzer, Hammond e armoniche. Ancora una volta, il ruolo di Martin è fondamentale : sir George si dimostra essere il braccio dei Beatles, colui che mette in pratica le strampalate idee di Lennon & CO.
A questo punto era anche giusto lasciare un po’ di spazio a George Harrison, che ha dovuto fare un po’ di lavoro nascosto fino a questo momento, senza avere la possibilità di emergere. George, reduce da diversi viaggi spirituali in India, si lascia trasportare dalla magia e dalle sonorità del Sitar, strumento a corde pizzicate, e scrive Within you, without you, una profonda riflessione filosofica sul significato del proprio “io” all’interno della vita e del mondo.
Ma quello del Sergente è un album pieno di colori e di salti, e così si passa di nuovo all’allegria e alla spensieratezza di When I’m Sixty-Four, pezzo del Macca in cui abbiamo un simpatico clarinetto sullo stile americano delle vecchie orchestre Dixieland anni ’20. La cosa curiosa è che proprio nel luglio 1967 il padre di Paul compirà 64 anni, ma Paul aveva già scritto il pezzo un paio di anni prima. Infatti si nota la semplicità e per certi versi la “acerbità” del brano.
E si salta ancora, con delle chitarre  echeggianti e con un basso davvero molto presente, a Lovely Rita,meter maid”, la parcheggiatrice. O meglio, la vigilessa che controlla le macchine. E niente, fa già ridere così. Curioso e buffo l’assolo di piano honky tonk realizzato dall’onnipresente Martin, anticipato dal grido Rita!.
Give us a wink and make me think of you
. Facci l’occhiolino e fa’ sì che io mi ricordi di te. Chissà cosa aveva provato il giovane Paul alla vista di quella donzella…
E dopo la nottata trascorsa in parcheggio, il gallo canta e ci si risveglia. Good morning, good morning. E davvero il gallo canta (suono registrato, ovviamente), accompagnato da un ensemble di ottoni, e con lui si sentono anche altri animali, cavalli, cani, pecore, leoni, elefanti, come se fossimo all’interno di uno zoo. È proprio il gallo che conclude la canzone con un chicchirichì, che si collega genialmente al brevissimo intro di chitarra che ci riporta a teatro. Lo spettacolo sta per finire, We’re Seregan Pepper’s Lonely Hearts Club Band, we hope you have enjoyed the show […] we’re sorry but It’s time to go […] it’s getting very near the end. In pochissime parole, è la ripresa del primo pezzo, rielaborata in chiave più rock, più distorta.

La mano di Lennon non si era sentita più di tanto fino ad ora, ma ecco che arriva uno dei pezzi più geniali della storia del gruppo, A day in the life.
Dal titolo, sembrerebbe un pezzo tirato giù per raccontare la quotidianità, le vicende narrate dai giornali e quant’altro. Paradossalmente è un po’ così, ma i Beatles ci stupiscono con un brano fuori da ogni concezione, che vede, dopo l’armonico inizio scandito da accordi di pianoforte e da una chitarra ritmica, il coinvolgimento di un’orchestra composta da 40 musicisti, costretti a suonare “a caso”, per 15 battute. Così si venne a creare un crescendo orchestrale che segnò la storia. È un qualcosa di irripetibile, perché non si riescono a percepire tutti i suoni e quindi, pur volendo, sarebbe quasi impossibile da riprodurre con un’intera orchestra. Del resto, Lennon ci aveva avvisati : I love to turn you on. Lui ama farci eccitare. Poi il trillo della sveglia, che ci riporta, come appena usciti da un sogno, alla realtà. Affannati sul letto, sconvolti, spiazzati. Ma i Beatles, non contenti di tutto ciò, ci stupiscono con l’ultima chicca. Un fischio stridente e voci scomposte, sconnesse, registrate a caso, forse al contrario, suoni strani e tante altre cose che potrete scoprire solo ascoltando l’album, gustando da capo a fine l’opera omnia del quartetto di Liverpool.

 

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Bibliografia :
M. Lewisohn, La grande storia dei Beatles, Giunti, 2005
R. Bertoncelli, F. Zanetti, Sgt. Pepper – La vera storia, Giunti, 2007