2 giugno: la nostra Italia

La res publica è cosa del popolo; e il popolo non è un qualsiasi aggregato di gente, ma un insieme di persone associatosi intorno alla condivisione del diritto e per la tutela del proprio interesse
(Marco Tullio Cicerone, De re publica I, 25, 39)
Il 2 giugno festeggiamo una pagina storica per il nostro paese: la nascita della Repubblica dopo anni bui sotto la monarchia sabauda. L’Italia da allora è cambiata molto, ha avuto un periodo florido tra la fine degli anni 50 e gli anni 60, con il famoso boom demografico, che popolò un paese che per anni si era leccato le ferite di una guerra mondiale sanguinosa.
Dopo 70 anni, si può cominciare a dare un giudizio su quello che è stata l’Italia repubblicana: a me è rimasta la sensazione di un popolo che ha bisogno di una guida forte, quasi un nuovo monarca, e devo dire che questa figura è stata ricoperta da due personaggi come Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi, che in maniera diversa hanno governato l’Italia: più nell’ombra il primo, anche se non ha disdegnato ogni tanto la carica di presidente del Consiglio, ma ha lavorato molto dietro le quinte, in modo più eclatante il secondo, dando un’impronta molto forte ai suoi vent’anni al centro della politica italiana.
Io credo, che quando noi italiani capiremo che sono le idee e i programmi politici seri che possono cambiare veramente questo paese, e non il capopopolo di turno, ultimo il guitto Renzi, finalmente avremo una repubblica compiuta e moderna.

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La Repubblica vinse con un margine ridotto, e fu fondamentalmente un rigurgito anti-monarchico, piuttosto che un vero afflato repubblicano, a muovere le masse al voto. L’Italia unita non ha mai prodotto grandi movimenti unitari, non si è mai comportata come una sola nazione.
Un progetto colonizzatore di una monarchia di discendenza francese e un’unificazione, si potrebbe dire, posticcia: la locuzione di “rivoluzione passiva” è infatti coniata da Gramsci apposta per identificare il movimento risorgimentale nella sua interezza. E di fatto, anche passato il ventennio fascista, la storia della Repubblica italiana è, se non anomala, perlomeno sintomatica della struttura deficitaria dell’unità italiana: segnalamo una prima Repubblica ufficialmente laica ma interamente dominata dall’oligarchia democristiana, e parliamo di una seconda Repubblica per sottolineare un passaggio non a livello costituzionale, bensì politico e rappresentazionale.
Unità italiana? Il nazionalpopolare non ha mai attecchito veramente, nella penisola. E dal 1992 circa, l’anima stessa di ogni ordinamento democratico sembra aver abbandonato il Bel Paese: la partecipazione politica, con la fiducia nella rappresentanza eletta e nello stesso dispositivo democratico del voto.
Piuttosto, sembra unanimemente diffusa in lungo e in largo una curiosa forma di orgoglio multi-regionale e anti-establishment: il vanto della varietà culturale, della ricchezza caleidoscopica, del mosaico di tradizioni e tipicità – a discapito del disprezzo per lo Stato nazionale e per la sua politica da faccendieri collusi.
Ma qui si parla di Repubblica e di Festa della Repubblica. E io dico che alla luce della storia dell’Italia repubblicana, ogni secondo giorno di giugno, da settant’anni, celebriamo un atto mancato. Un gesto inconsueto e repentino che sottintendeva qualcosa di inespresso.
Il 2 giugno è per ora solamente la festa della “Non-monarchia”, del gesto negativo. Tutta l’istanza positiva della scelta repubblicana, in Italia, ancora non si è manifestata.

(Simone Innico)

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“Gli italiani potevano votare, tutti : dovevano scegliere tra la monarchia – i re, i Savoia – e la Repubblica.. Anche la nonna andò a votare”
“Ah, sì! Ma perché, prima di quel giorno non poteva votare?”
“No, prima no, infatti quella volta uscì di casa e si recò al seggio”
“E alla fine chi ha vinto?”
“La Repubblica. Di poco, ma la Repubblica.”
Oggi forse, essendo un po’ meno ingenuo di una volta, riesco a capire il significato di questa data e di quel momento storico, ma soprattutto il perché di quella scelta.
Il 54,3% degli italiani scelse la Repubblica perché credeva in quei valori.
Perché non ne poteva più dell’autorità del Re o di chiunque altro.
Perché voleva evitare altre brutte svolte reazionarie come quella del fascismo.
Perché credeva che tutti, a prescindere dal ceto sociale di appartenenza, dal pensiero politico, dalla fede religiosa o dal sesso, dovessero essere uguali e con le stesse possibilità.
Perché credeva che dopo la guerra e dopo tutti i disastri causati dalle scelte di chi c’era prima, ora toccasse far scegliere agli italiani.
Perché la democrazia, questa sconosciuta, doveva partire dal basso ed essere partecipativa e partecipata, non dettata e “concessa” da chi sedeva sugli scranni del potere.
Perché il Bel Paese aveva bisogno di valori a cui credere, che non fossero “Dio, patria e famiglia” o “Viva il re!”.
Perché i valori e i sacrifici della Resistenza non dovevano essere dimenticati, ma proprio su quelli bisognava insistere e suggellarli in un “patto”, la Costituzione.
Perché l’Italia aveva bisogno di una Costituzione che tutelasse la democrazia e tutti i cittadini, che garantisse diritti e doveri, che definisse i compiti della Repubblica e della politica e che mettesse dei paletti fissi su ciò che era fondamentale fare o evitare.
Buona “festa della Repubblica”, fin quando festeggiare sarà l’ultima possibilità di far sentire il trambusto del vortice di quel vuoto di democrazia, libertà e partecipazione in cui ci stanno e ci stiamo trascinando.

Roberto Testa

Sono Roberto, un giovane di 20 anni. Studio Storia presso l’Università degli Studi di Torino e Contrabbasso Jazz presso il Conservatorio "G. Verdi" di Torino. La storia è molto probabilmente la passione più grande della mia vita, insieme alla musica, alla filosofia e alla politica..