Una piaga in mezzo al petto : Giacomo Leopardi

189 anni fa, Giacomo Leopardi si congiunse con Lei, “nata dalla Caducità”, viva più che mai, che mille e mille avevano cercato di sconfiggere nella posteriorità e nell’immortalità che solo la letteratura (e, in generale, l’arte) può donare.

Per dirla in maniera semplice, Giacomo Leopardi morì 189 anni fa.
Morì…

Si fa per dire. Non si può morire se si scrive, non si può morire se impregni la tua figura, la tua anima, a dirla tutta, su carta, per invitare i posteri a sederti accanto su un ermo colle, a rimirare quella siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte.. Il guardo esclude.
Se prende per mano il lettore, che deve fidarsi, non c’è altra maniera, e lo porta per le strade di Recanati, ascolta, ascolta il canto di Silvia, porgi le orecchie al suon della sua voce, ed alla man veloce che percorre la faticosa tela. Lingua mortal potrebbe mai dire quel che sentiremmo in seno? Guarda la donna che dorme. L’accolse agevol sonno, e egoista, non s’accorse della piaga d’amore.

Ci prende per mano, e fidati – sussura il Poeta con una stretta forte – perché “il leggere è un conversare che si fa con chi scrisse, ma i libri per necessità sono come quelle persone che stando cogli altri, parlano sempre esse, e non ascoltano mai. Per tanto è di bisogno che il libro dica molto buone e belle cose, e dicale molto bene; acciocchè dai lettori gli sia perdonato quel parlar sempre. Altrimenti è forza che così venga in odio qualunque libro, come ogni parlatore insaziabile.”

E Leopardi è il Cicerone dell’oratoria cartacea.

Questa volta ci prende per mano e ci porta per la sua Recanati, odiata quando vicina, amata quando lontana, ci accompagna per le sue più interne e recondite stradine.

“Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna.”

Ce lo sussurra, allitterazioni dolci, l’enjambement nel secondo verso che enfatizza la posizione logica e geografica della Luna : lassù nel cielo notturno, incontrastata domina, illuminando le montagne. E Leopardi sorride guardando in su, quel sorriso lieve e melanconico della notte, una notte chiara, e dolce, così in contrapposizione con il tumulto della nostra testa.

D’improvviso svolta a destra. Un edificio imponente, un portone, mille finestre, una chiesetta poco distante.
Casa Leopardi.
Ci fa salire un po’ di scale prima di giungere a una stanza, piena di sudate carte ove “il tempo mio primo e di me si spendea la miglior parte”, e poi un balcone. Il balcone, emblema dell’amore, della solitudine, del mirare le vie dorate e gli orti, dove Giacomo quante volte “porgea gli orecchi al suon della tua voce”, Silvia!

 

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Il cielo è ancora quieto e dolce, la luna domina, mentre l’animo del poeta diventa un mare in tempesta, che avanza travolgendo le sponde che tentano invano di contenerlo.

“O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai nè pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m’affaccio,
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.”

Si svela l’arcano del mare, la luna che causa la marea: una donna. Giacomo mira l’orizzonte dal balcone, che non è più un orizzonte quieto, ma un orizzonte più materiale e reale. Possiamo vedere altre stanze dal balcone, qualcuna ancora illuminata, mentre i sentieri e le vie e gli orti tacciono. Ci sporgiamo con il poeta, cercando con lo sguardo le stanze della donna amata. Spente. Lei dorme. Dorme beata, lei, tranquilla, nella sua quiete, mentre è colpevole di una marea, di un naufragio, di una piaga in mezzo al petto, presentata con un’allitterazione della “p” che sembrerebbe un singhiozzo di Giacomo, un lamento flebile. Lei dorme, tranquilla, e a noi morde l’angoscia.
Non v’è speranza per un amore così, non v’è mai speranza, e non brilleranno d’altro gli occhi nostri, se non di pianto.
E allora quello che pare intorno, la quiete, la Natura, diviene maledetta, incapace di concedere, incapace di speme.

 

 

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“Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo.”

La marea ha rotto gli argini, il vetro si è rotto.
Cocci ovunque, che tagliano come lame.
La Natura, e Leopardi che si fa grande, un titano del Romanticismo, che contro le ingiustizie e le sofferenze, la mancanza di speme, l’infinitamente piccolo nell’infinitamente grande, la donna che dorme, si getta a terra, grida, freme.
Vivere e farsi Titano, sempre più grande, e nel contempo la voglia di abbandonarsi a un riposo, lungo e cheto come quello dell’amata, eppur così lontano.
Ci gettiamo a terra, e chissà, Giacomo, chissà se qualche passante ci vede, chissà se ci indica e ride, ride del grido, e anche il cielo, la luna, domina, domina la luna e ride, ride di un piccolo niente in un vasto tutto, piegato su di sé, filosofuzzo gobbo, scrittore, studioso, superbo.
Ridono e non sanno, mentre la quiete aleggia intorno.

 

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Ma.. Ma ecco che passa per la viuzza sottostante un artigiano. Non ride, non si prende gioco di noi, ma canta, solo nella notte, pieno di quella quiete del cielo sovrastante. Non molto lontano rieccheggia la sua voce, una voce stanca, dopo una giornata intensa.
Giacomo si ferma nella sua disperazione, come un bimbo il cui lamento viene interrotto perché stimolato da un gioco, da un colore, un suono, una luce.
Passa il tempo, pensa. Il dì festivo è già finito.
Finirà ben presto il canto dell’artigiano, ben presto si sveglierà la donna, attenderà alle faccende domestiche, percorrerà con la mano la faticosa tela, forse anche ella canterà, e forse anche ella sarà infelice, forse per amore come noi, ma certo infelice.
Perchè, certo, ci sussurra Leopardi non distogliendo lo sguardo dal suo artigiano che sta per aprire il portone della sua casetta, l’infelicità esiste. E dobbiamo esserne consci. Come esiste la felicità, la speme e l’assenza di speme. Ogni cosa è, una con una frequenza, l’altra con un’altra frequenza, ma ogni cosa scorre nel tempo, con dolore, con pazienza, fino a quando non svanirà, disgregata nei ricordi, che avranno la malinconia e la quiete delle stelle di questo cielo.
E un giorno, un giorno non sarò più infelice, nemmeno per la Natura, nè per lei, perchè il tempo inghiotte e non resistuisce.
Come accadde per gli antichi popoli, che perirorno con i loro exempla, come accadde ai nostri famosi antenati, come accade a quella “ipse Roma”. Il mondo ormai non ragiona più di loro, ma guarda e passa.

“Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.”

E quella malinconia del cuore, quel canto, rimembra d’un tratto Giacomo, sono gli stessi di anni fa, quando, fanciullo, stringeva a sé il cuscino. Non v’era più l’entusiasmo, la gioia, l’euforia nell’attesa del dì festivo, che ormai era giù terminato, ma il dolore di una rimembranza vana e lontana, il vuoto di un presente che non appare luminoso come il passato, la nostalgia di un non ritorno.
10 anni di meno, lo stesso dolore.

“Nella mia prima età, quando s’aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.”

Lo stesso modo di sentire le cose, come un fanciullo.
Così dobbiamo essere, così devi essere, ci saluta il poeta guardandoci malinconico ma tuttavia quieto.
Sii un fanciullo, perché i fanciulli trovano il tutto anche nel niente, gli uomini il niente nel tutto.

 

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E perché..

“E perché l’andamento e le usanze e gli avvenimenti e luoghi della mia vita sono ancora infantili, io tengo afferrati con ambe le mani questi ultimi avanzi e quelle ombre di quel benedetto e beato tempo dov’io sperava e sognava la felicità, e sperando e sognando la godeva; ed è passato, né tornerà mai pili, certo mai più; vedendo con eccessivo terrore che insieme colla fanciullezza è finito il mondo e la vita per me e per tutti quelli che pensano e sentono; sicché non vivono fino alla morte se non quei molti che restano fanciulli tutta la vita”.

Si chiude l’idillio, perché tutto passa.
Ma Leopardi no.
E si può rileggere.

 

Arianna Mariolini

 

Arianna Mariolini

Mi chiamo Arianna Mariolini (Ary). Sono nata il 6 gennaio 1998 a Clusone, in provicia di Bergamo, ma attualmente risiedo a Pisogne, un bellissimo borgo bresciano. Dal settembre del 2012 frequento il Liceo classico Decio Celeri di Lovere. Le mie principali passioni sono la letteratura e la musica...