Ritratto di Cesare Pavese

A cura di Claudia Balmamori

Io non so ancora se sono un poeta o un sentimentale

Cesare Pavese nacque a Santo Stefano Belbo il 9 Settembre 1908, fu scrittore, poeta, traduttore, saggista e critico letterario. Frequentó il liceo classico ed in seguito si laureó in Lettere con una tesi su Walt Whitman, la passione che sempre gli fu cara per la letteratura inglese e americana, lo portó a tradurre alcune tra le opere piú celebri di Defoe, Dickens, Melville e Joyce, rendendo cosí fruibili al panorama italiano le piú belle pagine della letteratura americana di quel tempo.

Nel 1935 fu arrestato con l’accusa di attivitá antifascista e condannato per tre anni al confino che sconta a Brancaleone Calabro. Negli anni successivi comincia a lavorare per la nascente casa editrice Einaudi e nel 1942 viene assunto come dipendente. Nel suo lavoro era metodico, perfezionista, si alzava alle cinque del mattino e scriveva per se, giunta l’ora di andare al lavoro ritirava le sue carte e si impegnava nel meticoloso compito di revisione bozze degli scritti degli altri, usciva e ritornava ai suoi. Quello stesso anno si iscrisse al Partito Comunista e comició a colaborare con l’Unità.

“Era alto, lungo, secco, camminava sempre un po’ curvo guardando le punte dei piedi e le mani intrecciate dietro la schiena” cosí, lo descrivevano i suoi colleghi, un uomo cupo, solitario, ma non per questo privo di qull’ironia tipica degli uomini piemontesi, una battuta, poche parole ma taglienti.

Attraverso una tormentosa analisi di se stesso e dei rapporti con gli altri e un’ ininterrota lotta per costruirsi come uomo e come scrittore, Pavese comporrà poesie e ‘romanzi brevi’, che meglio di qualsiasi lettera indirizzata ai pochi amici che aveva, sapranno descrivere il suo animo malinconico e straziato dai dolori che la sua incapacità di vivere gli suscitavano.

Le maggiori raccolte di poesie furono ‘Lavorare stanca‘ del 1936 e la sua ultima opera postuma ‘Verrà la morte e avrà i tuoi occhi‘ del 1951. Come racconterá nel diario ‘il mestiere di vivere’ , nella sua poetica Pavese si impegna non tanto a descrivere la realtà oggettiva delle cose, tanto piú a descrivere la realtà ‘simbolica’, quella realtà nascosta, che si cela proprio dietro quella oggettiva. Pavese unisce il concetto di simbolo con quello di mito, che si profila come l’obiettivo cui la poetica deve tendere.

Ad adottare il ‘mito’ nella propria poetica furono per primi quegli scrittori americani ai quali si ispirava Pavese, il quale dava un nome al mito, chiamandolo giovinezza. Leggendo Pavese, infatti, ci imbattiamo in un desiderio di costante rimpianto nei confronti dell’adolescenza ormai finita e troppo lontana per essere recuperata.

I temi fondamentali della poetica Pavesiana, riscontrabili in ognuno dei suoi componimenti, sono: la ricerca di contatti umani, di incontri con la realtà quotidiana, di reimmersione nel mondo rurale da cui proviene e che mai dimentica, la straziante solitudine, il vuoto interiore e quel costante pensiero rivolto alla morte.

Nell’opera di Pavese lo stile si fonde con le situazioni attraverso la disposizione delle parole che seguono lo stesso ritmo delle emozioni vissute in prima persona nella sua realtà intima, interiore.

“Ché da tutte le cose

siamo sempre fuggiti

irrequieti e insaziati

sempre solo portando nel cuore

l’amore disperato

verso tutte le cose.”

Cesare Pavese si suicidó nella camera numero 49 dell’ Hotel Roma di Torino il 27 agosto 1950.

Dieci giorni prima, il 17 agosto, scrisse nel diario ‘Il mestiere di vivere’ <<Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò>> , ed il giorno seguente scrisse ancora <<Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più>>

Il suo animo già tormentato, subí l’ennesima delusione d’amore, un dolore troppo forte da poter essere combattuto vivendo. ‘Verrà la morte e avrà i tuoi occhi’, una raccolta di dieci poesie trovata fortuitamente tra le carte del defunto scrittore, si profila come l’ultimo grido di un’esistenza disperata, di quell’incapacità di vivere secondo i propri desideri e di quell’anima stanca e disarmata, di fronte a quella vita incontenibile e mai capita.

«E un bel giorno mi capita lì in ufficio. Arriva e mi chiede di Oreste Molina. Dice: “C’ è Molina?”. Rispondo: “No dottore, è in ferie”. “E il dottor Einaudi c’ è?”. Dico: “No, non so dove sia”. E sono rimasto un po’ lì. Poi sta zitto un momento e fa: “E Bollati c’ è?”. Dico: “No dottore, anche Bollati è in ferie”. Allora si è un po’ oscurato in volto, è stato un momento in pensiero, poi si è diretto verso una lavagna che avevamo in un angolino dell’ ufficio, ha preso un gessetto e con forza ha scritto “merda”. Scusi il termine, ma ha scritto così. Tanto è vero che quella scritta è rimasta per mesi e mesi, nessuno voleva cancellarla. Ha borbottato qualcosa, credo mi abbia salutato ed è uscito. Il giorno dopo, lo abbiamo saputo: “è morto il dottor Pavese”. E siamo rimasti tutti male».

A raccontare le ultime ore vita di Cesare Pavese è Ettore Lazzarotto, che lavorava all’ ufficio tecnico della casa editrice. Il suo racconto, inedito, fa parte delle testimonianze degli amici dello scrittore che Andrea Icardi ha raccolto per la Fondazione Cesare Pavese di Santo Stefano Belbo.

Quella del 1950 fu l’ultima estate di Pavese, il quale si apprestava a salutare per l’ultima volta gli amici, i colleghi e i conoscenti che ha incontrato durante i suoi quarantadue anni di vita, prima di quella prematura e premeditata morte.

Sul frontespizio di una copia di ‘Dialoghi con Leucò‘ scrisse le sue ultime parole, il suo addio:

Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene?

Non fate troppi pettegolezzi.

Fonti:

‘Cesare Pavese – Ritratto’ – Andrea Icardi, 2011

‘Le ultime ore di Pavese’ La Repubblica, 2007