Quei deboli polsi

A te che stai leggendo quest’articolo con gli occhi che va a capire tu di che colore sono. Non so se gli articoli in genere si possano dedicare, ma questo è per te. L’ho scritto in un momento di rabbia -chè ne ho molti in questi ultimi tempi. Ma pur nella rabbia ho serbato per te sentimenti bellissimi.
Così questo articolo ti parrà un po’ una selva oscura, ma tu non badarvici troppo. Confido nel fatto che saprai trovare e cogliere nelle bruttezze i mille e mille fiori che ho seminato per te.


Arianna.

Vorrei poterti amare senza circostanze in cui mi trovo per caso dopo aver letto qualche riga stroppicciata alle sette di mattina in metrò. Vorrei non dover aspettare un secondo in più prima di pensare alla tua bellezza viva e non sbiancata. Vorrei i lampioni al neon di notte quando torno, e non il giorno con la paura di amarsi troppo.
Vorrei l’imminenza nel descrivere ancora la tua pelle al Louvre, o forse qualcosa di diverso, per non riciclare le cartoline di un’estate fa e poco più.
Mi piacerebbe poi, portarti via. Anche adesso, anche con altri occhi banali addosso, anche adesso che te ne stai nel tuo angolo con le riviste quando vuoi, e adesso che diventi superbo ed arrogante senza riserve. E ti porterei via ora, sai. Resisteresti poco al freddo e avresti mille motivi per poi forse tornare, ma mi piacerebbe sapere se io volessi poi effettivamente restare.
E poi, e poi vorrei scattarti mille foto al mare (il nostro mare) quando chini il viso perchè ti sai imbarazzare, quando alzi lo sguardo per potermi mentire, e giri la testa per farmi star male.
E chissà che faresti guardando le onde, se strizzeresti gli occhi per le scaglie che sgocciolano come un bimbo, o se la bimba fossi ancora io, pronta a raccogliere conchiglie e bottiglie di mare.
Scattarti mille foto.
Per poi vedere se mi verrebbe per caso il felice desiderio o restasse il triste dolore di non attaccarle alla parete, con una scusa qualunque che non so più inventare.
Quella tua felpa grigia enorme, indossarla per un profumo e non per un freddo, per un batticuore e non per uno sparire sempre in matasse di fili di lana e di nervi.
Farebbe un po’ meno male la vita così, non credi?
Eppure hai gli occhi di chi non muore ed ama male ma tanto, e quei sorrisi non mentono se mi guardi, e anche se ti esasperi e faccio la bambina lo so che non ti annoi, lo so che te ne andresti solo per il gusto di vedermi mentre ti saltello dietro per stare al passo, chè il tuo è sempre stato il più buono.
Vorrei aver più bellezza nel parlare di noi a me stessa, senza sminuirci con tristezza rassegnazione, senza considerti A mentre io sono Z, ma di quell’opposto brutto, che non capisci nemmeno se è opposto o semplicemente inunibile.
Esiste inunibile? Tu ridi sempre ed io invento parole, tu mi prendi la mano nell’attraversare, mi allacci le felpe prima che corra via, mi poni un vetro mentre mi faccio di malinconia.
E’ una cosa geniale, quella del vetro. Puoi vedere quello che ti spaventa, ma non può toccarti, puoi ferirti, soffrirne, gioirne addirittura, giorne, ma non morire. Ricordi?
Anche se è quello che vuoi, a volte, morire, e non in senso pessimistico, davvero, ma giusto per vedere se c’è una fine a questo tormento, di saperti e non averti, e di averti e non saperti mai, con i tuoi ritardi, le tue rabbie isolate e abominevoli, i tuoi credi che mi fanno montar l’esasperazione, la tua pazienza che mi distrugge, quella passività che analizzo giorno dopo giorno, senza giungere a nessuna conclusione, senza capire se noi c’entriamo o no, poi con l’amore. Cosa c’entriamo noi due con le romanzate, tu che mi prendi in giro senza farmi male mai o raramente, io che bevo le tisane al finocchio per poi soffiarti in faccia per farti esasperare?
Cosa c’entriamo con la politica, le corse dei cavalli, la metrò, Amici e l’Eurovision, l’Ikea e la D’Urso?
Vorrei capirlo, e vorrei tante altre cose.
Vorrei attraversare l’alba a 90 chilometri orari con lo Scarabeo che ho distrutto in un incidente, anche se non si può, e vedere se ti scandalizzerai con le tue stupide regole. Vedere se ne usciamo, e la tua faccia dopo, poi, la tua indignatio e il tuo ghigno stizzito.
Vorrei portarti in una mostra e vedere che ti perdi in un dipinto-tu che nei dipinti non ti perdi mai- e capire se io potrò mai perdermi in te o in un tuo neo- anche tu, che di nei ne hai mille.
Vorrei tornare in Sicilia, quando ti spalmavo il mio cono gelato in piazza, e allora le signore opulenti nei loro vestiti ridevano e spiavano il nostro segreto, e tu correvi e io scappavo-io tornerei in Sicilia per capire se quello era mai il segreto puro e schietto di una grezza felicità.
Vorrei ancora per una notte i letti siciliani per la dolcezza di un’amicizia moralmente mostruosa ed inadatta, i letti francesi per la rivelazione di un eterno ritorno fantastico, i letti greci per poterti amare nuovamente, senza garbo, e i letti di casa mia per tentare un amore che non riusciva mai a sbocciare come avrebbe dovuto.
Vorrei una mappa grande grande, o anche un mappamondo-solo che è ingombrante il mappamondo, e sai che odio guidare e che non guiderei per portartelo e allora vada per la mappa- e un pennarello rosso gigante di quelli che hanno la punta profumata-puzzano polemizzi tu, e io te li spalmo sul naso e tu ti arrabbi da pazzi-.
Verrei da te all’alba, ti porterei questa maledetta mappa e ti direi di cerchiare il posto che ti piace di più, che ti ci porto.

 


Poi le cose non andrebbero esattamente così, non ci andremmo davvero, la vita a volte prende strade contorte che nemmeno sai bene spiegarti tu. Però sarebbe la bellezza del gesto a contare, e l’assenza di parole, e la luce che si accende nel tuo sguardo ogni volta che faccio qualcosa di carino-poco, a dire il vero-.
E tu sorrideresti con quella lucidità, faresti dei versetti per indicare la tenerezza del momento, e in tutto questo vorrei capire il mio posto nel mondo, il cerchio rosso dove io dovrei realmente stare, che sia una spalla, un letto o un fiume, io vorrei un’ansa dove riposarmi ogni tanto, un’ansa, signori, un’ansa di emozione, chiedo troppo, perchè uno non può vivere in mezzo, semplicemente, senza dolore, frastuono, senza farsi male ma solo con infinito schifo o terribile gaudio?
Vorrei che cerchiassi il Canada, perchè le notti scorse nel pub della settima strada ho disegnato immersa in una felpa gigante per nascondere le mie ossa crescenti per rigetto il Canada sul sottobicchiere di cartone.
E accanto ci ho abbozzato il tuo viso, giusto due volte, perchè la terza non mi viene.
E avrei voluto che comparisse una donna con le tue labbra per dirmi di tornare da te per sanguinare, ma non è arrivata nè lei nè la pena di combattere per un qualcosa che non c’è mai.
E così me ne sono tornata a casa col buio caldo di maggio a osservare i lampioni e a ricordarmeli riflessi sempre negli occhi tuoi, in cui ci vedevo pure i miei.
E lì per quell’istante ho smesso di chiedermi cosa c’entrassimo io e te, io che amo i sognatori folli e tu le ragazze di Chiesa, io che sono la sognatrice e tu che sei il ragazzo di Chiesa. E non arrabbiarti per questo, tesoro mio, ne uscirebbe poi alfine un bel romanzo.
Vorrei leggere i libri di sempre e dire con convinzione efferrata e quella luce nuova ed antica:
“Toh, eccoci qui, proprio qui scritti!”
Senza pensare che invece noi non siamo così, siamo due raminghi, o meglio un disastro e un sano troppo sano che cerca di immedesimarsi in una vita che forse non gli apparterrà anche con tutta la voglia che c’è.
Mi piacerebbe poter scrivere di te come di un pittore, mi piacerebbe poterti dire Erinni talvolta, mi piacerebbe delinearti e disegnare i tuoi occhi, riempire di pupille quegli spazi bianchi perchè ho conosciuto la tua anima, e non voglio lasciare dubbi come Modigliani.
Vorrei tanto aver il coraggio, la voglia, la certezza di saper scegliere i sentimenti quando mi stringi forte.
Vorrei comprarti un impermeabile giallo e portarti in montagna quando piove e la notte è nera e piena di stelle, e allora rifugiarci in un cascina dove scoppia emozione da ogni fessura del legno, e capire se è circostanza o se questo allora può chiamarsi amore.
Vorrei la bellezza della fierezza quando ti chiedono informazioni stradali, e la gelosia nobile che ne implode quando ti volti e sorridi-vorrei dir, che nessun sorriso è come il tuo.
I biscotti mangiati a sporcare il letto un sabato sera con le luci nel lago- odio le briciole nel letto, ma vorrei sopportarle volentieri.
Vorrei un ristorante troppo pieno di farfalle per mangiare, un aereo che ci aspetta per partire, la fierezza in quei tasti da sfiorare nell’attesa, e quel batticuore da fermare, anche per non farsi male.
Vorrei che mi stravolgessi ogni domani, che mi facessi perdere la testa a forza di tenermela, che mi stringessi i polsi ogni volta che voglio ferirmi.
Te lo ricordi? Me li stringevi spesso, con quella tenerezza da bimbo un po’ cresciuto, stringendoli al petto con quella rabbia dolce, mentre nella testa mi frullava quella canzone, la nostra “Stringimi forte i polsi” di Dario Fo, scelta un po’ per gioco quei mesi prima, con quella dolcezza del primo amore.
I polsi.. Quei miei polsi sempre troppo graffiati, che si sono rivelati infine molto più forti dei tuoi, che non sono stati capaci di tenere.
Ero qui perchè se mi fossi arresa questa volta mi sarei arresa per tutta la vita. Ma so che non mi potrò mai arrendere da ora in poi, e questo è perchè sei stato tu a mollare la presa quando il gioco si faceva duro. E, per questo, bello. E finalmente vita.
Vorrei che tutto quello che cantano nelle canzoni anni ’60 che noi ascoltiamo sempre in macchina prima di ogni bacio si avverasse per noi, perchè è il nostro sogno piccolo di bimbi d’estate dalle guance rosse, e tu lo sai, lo hai sempre saputo.
Vorrei i tuoi ricci raccolti in fasce, notti torride di stelle e quel tuo sorriso dolce, a volte da cretino, sempre da amico.
E quella chitarra che io non ho mai imparato a suonare, ecco, quella chitarra ci starebbe bene su di te, con quelle tue dita magre che a te non piacciono, e quei maglioni enormi che metto pure io e tu mai, e giù a suonare in un bosco forse non qualunque, con quella voglia di amarsi senza riuscirci mai davvero troppo.
Vorrei che le cose andassero per una volta come ce la aspettiamo, senza biglietti del tram inaspettati, senza le buche senz’acqua, senza le voci alte ed imperiali a suggerirci cosa sarebbe meglio fare, cosa sarebbe meglio sentire, cosa accarezzare.
E vorrei non aver detto che, ecco, c’avevano ragione proprio loro.
Vorrei più parole da sentirmi dire, io che non te ne ho dette mai troppe, e quelle dita che ci sapevano fare con lo sfiorare le mie guance, sorridendo triste perchè “non è più come quando avevi 14 anni, sei meno paffuta, bambina insolente.”
E se ci penso lo sai che è così, anche con scorni e traffici e graffi sono cresciuta con le dita tra gli spazi vuoti della tua mano, e quella foto nel casseto in bianco e nero non mente, con i 15 anni d’orgoglio smacchiato, le tue fossette e quel sorriso che mi ricordava sempre tua madre, e gli occhi anche, che manco si capiva mai di che colore fossero.
Ma ora la mia automobile scivola da sola verso casa mentre rileggo le tue parole inevitabili, come se non ci fosse altro da fare se non quello di disperdermi come la tua prima amante tra le tre un po’ appassita, chè da tempo non è più primavera. Cerco di trovare un’altra interpretazione, tentando di valicare le frasi così come sono – cunei – e trovarci l’intenzione inespressa di dire dell’altro, qualcosa di più clemente, di più saggio, per poterti giustificare un giorno ai miei occhi, per darti ancora tempo, spazio, per saperti portare nella mia tasca destra in alto quando la voglia e la forza non le sento giù più, e rivedere su un orizzonte di carta i giorni in cui c’eri. Cerco titubanze, virgole, mi soffermo sui dettagli. Ma io dei tuoi dettagli non ci capisco più nulla. Non so come sono fatti, in verità, sotto quella tua maschera di troppa bontà, affrontando sempre la vita come un contemplatore che osserva, senza mai davvero schierarsi sull’argine di un fiumiciattolo, giusto per sapere che in fondo, con ardore vero e senza quella dannata tua misura imposta da un qualche Dio, mi amavi anche tu. A modo tuo, ma mi amavi. Potrei rimanere attaccato alla balaustra a due mani, mangiare tutte le merendine della macchinetta accanto all’ingresso della scuola pur di restare a guardare il fiume da un lato e la strada dall’altro, consapevole del mio schieramento e del tuo fluire come chiunque, e chiedermi come ho fatto ad amare l’indistinto.
Ne ho mangiate molte di merendine della macchinetta ma adesso, alla guida, con le mani poco convinte e smaniose, non ne ricordo il sapore singolo e anche gli incartamenti mi paiono tutti uguali. Non posso distinguere il caramello dal fiordilatte e questi dal cioccolato: ho un solo amalgama appiccicaticcio nella bocca.
Mi sembra strano sentirmi così sopra le righe. Mi sembra strano, ancora, sentire quegli occhi addosso, senza sentirmeli dentro come avrei realmente voluto.
Non so raccontare una volta in cui tu mi avevi detto di essere felice, in effetti. E nemmeno una volta in cui te l’ho detto io, d’altronde. Non credo minimamente che tu mi sia venuto incontro per davvero, con foga ed eccitazione, per abbracciarmi di sorpresa. Non credo nel fatto che fossimo due, sai, tipo l’amore che vedi nei film, tipo io che sono la tua persona e tu che sei la mia, tu che parli fiero di me e mi guardi perso. Noi che non siamo dove c’è uno c’è l’altro. Noi che non sappiamo mai niente l’uno dell’altro, o forse facciamo finta, e sembriamo due estranei in una copertina di romanzo mai credibile.
E non credo che noi due abbiamo un altro tempo. Concedimi di dirtelo, tesoro, concedimelo per stasera in cui ho il cervello un pochettino a pezzi, e tu non ci sei e te ne starai beato nella tua scelta, e io non mi perderò nei tuoi occhi come mai ho fatto, e allora concedimelo, e fammi togliere dalla mente quel patetico sorriso che hai fatto quando mi hai detto che avremmo avuto altri momenti.
No, non ne avremo, altro tempo.
Di tempo ce n’è uno, qui, ora, adesso, e io l’ho capito sai, io che sbaglio tanto ho capito che Nietzsche qui non c’entra, e che non esiste un eterno ritorno, o forse esiste e tu sei destinato ogni giorno a lasciarmi andare, senza un perchè se non quello che non hai avuto nemmeno troppo coraggio per riniziare, lasciando perdere le scuse, le mie paure, le tue cazzate e i miei sbagli.Vorrei fartelo capire, e vorrei essere clemente con te, ma non sono clemente nemmeno con me, e dunque, perchè dovrei?
Vorrei che tutto non dipendesse da te,  vorrei credere che tutto quello che sono sia nato solo da me, e vorrei averci creduto quando ti ho detto con foga che un giorno avrò anche io la mia parte di bellezza, e tu tornerai, e io sfilerò come allora sul tappeto rosso di una chiesa come Benigni, per ricordarti di quando lo facevo mentre tu pregavi quel tuo Dio, giusto per ricordarti di non ricordare cose intornabili. Esiste intornabili? Tu mi ignori, io invento parole.
Vorrei non guardare ancora papaveri e girasoli e pensare a un sogno mai compiuto di un’estate o poco prima, coi campi di grano, i picnic e il campeggio, stretti-maglioni sempre larghi- fuoco nel freddo.
Vorrei che tu non fossi da nessuna parte,
che la smettessi di essere nel sale, nella letteratura, nei libri, nei fili di prato, nella musica appena scoperta, nella musica di Salvador, perchè io lo so, io cerco di saperlo che non è vero che vorrei pregarti di tornare, di ascoltare le mie preghiere, chè se il tuo cuore non vuole il mio può amare per entrambi.
Vorrei che non fossi..
nemmeno dove vorrei, a volte, giusto per ritornare sopra l’erba a buttare gli occhi al cielo
che tu fossi

Indovina dove.

 

Arianna Mariolini

Mi chiamo Arianna Mariolini (Ary). Sono nata il 6 gennaio 1998 a Clusone, in provicia di Bergamo, ma attualmente risiedo a Pisogne, un bellissimo borgo bresciano. Dal settembre del 2012 frequento il Liceo classico Decio Celeri di Lovere. Le mie principali passioni sono la letteratura e la musica...