Eppure sto in croce

C’è un bellissimo saggio Catulliano firmato Alfonso Traina.
Nemmeno troppo pesante. C’è da dire che non sono un’esperta in materia (faccio lettere classiche ma da pecora nera, un po’ come il Livio che veniva definito da Augusto “il mio Pompeiano”, roba che comunque certe stanchezze o macchie strane va a finire che te le porti addosso con docile arroganza), ma Traina scrive a mio parere da Dio, e se la gioca bene con Citroni. Riesce nel difficile intento di presentare l’assaggio dell’autore al lettore digiuno, per poi stuzzicarlo qua e là con aneddoti e riferimenti testuali che ti fanno venire ancora più fame, eppure già ti senti vagamente più sazio. Citroni è una nennia, più berceuse: ecco l’autore, quello che c’è da sapere, ne esce che sei convinto di essere un erudito di Marziale e tuttavia con la voglia di leggerlo, oltre che di vederlo delineato a carboncino nero in una stazione di un treno che non viene mai.
C’è da dire, io Marziale l’ho studiato lì, ma poco importa.

E, comunque, Catullo.

Traina inizia attuando un parallelismo tra quelli che, solo apparentemente, potrebbero sembrare due paradossi e due antipodi: Lucrezio e Catullo.
Quaedam voluptas atque horror, dice il primo.
Odi et amo, scrive il secondo andando a creare il prototipo di una passione in miniatura.
Il primo è convinto che se solo fossimo in grado di dirci la verità e guardare in faccia le millenarie menzonie come un vecchio Nietzsche, allora tutto sarebbe più clemente, e nemmeno la morte sarebbe un costante terrore.
Il secondo ama, e vive in sè il paradosso del suo essere uomo: odio e amo.

Eppure dice Traina, i due non potrebbero essere più simili di così nella loro diversità.
In un momento di crisi dell’antica Res Publica, quando i valori comunitari del mos maiorum non sono più lo pecchio delle volonta e delle aspirazioni del singolo, i ribelli elaborano risposte.
L’uno trova la chiave nella filosofia.
L’altro la chiave nell’amore.
E mi è parso un Barnum degno di nota.

Catullo nacque nell’84 a.C circa a Verona. Fu una vita breve ma densa e piena di furor, come lo furono la maggior parte dei suoi componimenti: si spense a 30 anni con alle spalle 116 scritti, qualcuno più, qualcuno meno.
Scrive di tutto, Catullo. Ma soprattutto scrive sè: i propri amori, le amicizie, risposte a detrattori, esperienze omoerotiche, baci lascivi con un giovinetto ritroso. Sarebbe tuttavia errato parlare di “romanzo” in riferimento all’opera Catulliana, come invece fece Pascoli: sarebbe sbaglaito tentare di ricostruire la vicenda biografica ed erotica del poeta provinciale: tutti i suoi componimenti, anche i più freschi, immediati e leggeri, sono in realtà frutto di un’elaborata tessitura impiantata sui modelli del mondo greco, principalmente. Nulla nasce per caso. O quasi.

Sono tanti i temi, abbiamo detto. 116, hai voglia a scriverne.
Non manca il torpiloquio (“Io ve lo ficcherò su per il culo e poi in bocca, Aurelio succhiacazzi e Furio frocia sfondata,
che pei miei versetti pensate, sol perché son teneri e gentili, ch’io sia poco pudico e virtuoso”
), non manca nemmeno l’aulicità (Qua là qualcuna dell’eroiche geste. Ecco, sul mare, onde ogn’intorno è cinta, Arianna affisar le luci meste; Di Nasso ondisonante è questo il lido, Quel che fugge è il navil di Teseo infido), ma il Barnum sta tutto nell’amore.
Un amore denominato Lesbia.

Lesbia, in realtà Clodia, sorella del tribuno Clodio. Quello intrapreso con il poeta non è un amore lecito è felice, ma in realtà stuprum, ovvero amore illecito, non consentito: Lesbia è infatti prima nupta, ovvero sposata, quando incontra Catullo. Poi vidua, vedova. Poi qualche rara furta (corna, per dirci), perdonati dal poeta il quale sembra però intransigente sui trecento e più adulteri.
Eppure, in questa impossibilità sociale, Catullo riversa ogni aspettativa, ogni speranza, proiettando la sua unione con la donna Romana in un patto sacro, il foedus, basato sulla pietas e sulla fides (concetti bellissimi, che difficilmente possiamo rendere nella nostra lingua senza ricorrere a perifrasi. In parole povere, comunque, la reciprocità dell’amore, ma nemmeno, un patto biunivoco che impegna entrambi a qualcosa di oltre. Un po’ l’amor che a nullo amato amar perdona, quel concetto lì).

 

Vita mia, mi prometti che questo nostro amore
tra di noi sarà felice e perpetuo.
Grandi dèi, fate in modo che possa promettere con verità,
e che dica ciò sinceramente e dal profondo del cuore
cosicché ci sia permesso di protrarre per tutta la vita
questo nostro eterno patto di santa amicizia.

Fin dal giuramento Lesbia pare però incostante, fugace. Il che non impedisce al poeta di gettarsi in un amore illimitato, sorvolando pur sapendo la volubilità femminile.

 

La mia donna dice che preferisce non sposare nessuno
tranne me, nemmeno se Giove stesso la desidera.
Lo dice: ma ciò che una donna dice ad un amante cupido
occorre scriverlo nel vento e nell’acqua che scorre.

Catullo non ci delinea un quadro preciso della sua donna, il cui vero nome viene fornito del paragrado 10 dell’Apologia Apuleiana, insieme a quello di molte altre donne da cantori famosi.
Ce la dipinge piuttosto in negativo, delineando cosa a una donna manca per essere la sua Lesbia: dita affusolate, capelli scuri, agilità e fascino nel portamento, grazia, culta (non dimentichiamo che le donne amate da Catullo in poi e celebrate nella poesia sono donne dotte e sapienti di lettere greche e latine, capaci di suonare e conversare, dati che portano il Traina ad associare alla Lesbia di Catullo la Sempronia in Sallustio).
Eppure Lesbia sovente compare nel nostro immaginario come la donna spregiudicata che non si frena nel ferire colui che non si capisce mai quanto ami. Eppure, a volte, ci pare donna fragile, gatta che si fa gattina (che ridicolizzazione ahimè), pronta a rotolare nel letto aspettando l’albra, e non aspettandola mai. Perchè il tempo in Catullo è nunc et hic, e va vissuto senza implicazioni moralistiche, ma con l’atto d’amore.
Rotolando in un letto, dunque.
E facendola ridere. Fate entrambe e avete vinto.

 

Vivamus mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum seueriorum
omnes unius aestimemus assis!
soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit breuis lux,
nox est perpetua una dormienda.
da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus inuidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.

Viviamo, mia Lesbia, ed amiamo,
e i rimproveri dei vecchi austeri
tutti insieme non consideriamoli un soldo bucato.
I giorni tramontano e tornano;
ma noi quando cade la breve luce della vita,
dobbiamo dormire una sola interminabile notte.
Dammi mille baci, poi ancora cento,
poi altri mille, poi ancora altri cento,
poi di seguito mille, e poi di nuovo altri cento.
Quando poi ne avremo dati migliaia,
confonderemo le somme, per non sapere,
e perchè nessun malvagio ci invidi,
sapendo che esite un numero tanto grande di baci.

Quella che è una passione totalizzante diventa la totalizzazione di un dolore anestetizzante con l’ennesimo adulterio di Lesbia, che porta Catullo a porre una pietra lapidale su quella che è stata a tutti gli effetti la relazione della sua vita. Si tratta del primo caso di Discidium (anche se non totale: Lesbia ricorre ancora negli scritti del poeta, il quale del resto non si dedica ad un altro genere letterario con l’abbandono della donna come farò, poco dopo, Properzio).
Quello che è però il disincanto nei confronti dell’ideale dell’amata (non bisogna toccare i miti, altrimenti ci si sporca d’oro che cade, diceva la mia professoressa) produce in Catullo una separazione, ma anche da sè. Non solo si rivolge nei suoi scritti a se stesso pregandosi di smetterla con questo dolore insensato ed immutabile (Miser Catulle, desinas ineptire, Et quod vides perisse perditum ducas.), ma trasfoma dei sinonimi in antipodi: amare et bene velle.
Prima così simili, e ora espressione di due stati d’animo in collisione: il dolore causato dalla donna provoca il disincanto nell’uomo che sa che non potrà più vederla e stimarla come un tempo (bene velle).
La lacerazione raggiunge il culmine e l’apice della climax in uno dei più bei componimenti di Catullo.
Carme 85, ripresa del Traina inizio articolo, ring komposition. Musica, silenzio, sipario, luci, nulla di questo.

 

Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Odio e amo. Per che motivo io lo faccia, forse mi chiederai.
Non lo so, ma sento che accade, e questa è la mia rovina.

Passione in miniatura, lo definisce Traina.

Un Barnum allora.
Ma piccolo piccolo.

 

A cura di Arianna Mariolini

 

Arianna Mariolini

Mi chiamo Arianna Mariolini (Ary). Sono nata il 6 gennaio 1998 a Clusone, in provicia di Bergamo, ma attualmente risiedo a Pisogne, un bellissimo borgo bresciano. Dal settembre del 2012 frequento il Liceo classico Decio Celeri di Lovere. Le mie principali passioni sono la letteratura e la musica...