La bocca tremante mi basciò

Quando mi innamorai la prima volta, quella fu solo di Dante. A veder poi ora è roba da vedere nelle cose che filano via senza permanenza qualche macchia più forte, o più fortunata, con una precoce persistenza spaventosa, che è poi l’amore. E in effetti dopo 12 anni potrei contare e ricontare per ore le cose che amo più di Dante, ma sempre con un solo dito alzato, il pollice, sempre con un uguale punto nell’elenco. Cosa che ho iniziato ad amare da poco, comunque. Cosa che comunque per un po’ era lì lì con l’Alighieri. Cosa che se comunque disegno con i gessetti nel buio della mia stanza su un soffitto qualunque acquista un senso diverso, se solo intanto ti reciti Dante nella mente, così, che fila via liscio mentre vivi, labile confine tra scritto e realtà che diventa alfine, se solo ne trovi il coraggio, se solo collezioni cicatrici e occhiaie di studio, amore.

7 anni. Robe che alla sedia nemmeno c’arrivavo. E infatti lasciavo penzolare le gambe nel vuoto fino a sbatterle contro il muro “Smettila che ti fai male”, mia madre, “Smettila che mi sporchi il muro”, mio padre. Alla fine però la cosa si risolveva con un atto d’amore che mio padre mi ha regalato per anni, e che io ancora oggi tengo nella tasca destra in alto come il ricordo più bello che ho di lui, mentre mi diceva che mi amava senza dirmelo davvero mai. Sempre mezzogiorno. Gli occhi grandi carchi di attesa, i capelli in trecce, chè certe ribellioni sono dure a nascere, la pasta fumante e si era felici con poco, e bastava davvero. Si alzava, armadio a sinistra, scaffale in alto, storia della letteratura italiana, Geografia, Atlante, ecco, ecco Dante, andiamo avanti con la lettura Ary? Sì. Eravamo.. Canto quinto papà. Brava Ary, però mangia che poi si raffredda, e smettila con quel muro che è più nero che bianco. Poi si sedeva lì, ed era tutto così bello ed in un certo senso sacro, ecco, sacro, che mangiavo davvero (piano, se no finivo prima della lettura), e il muro rimaneva bianco per un qualche attimo in più.
Che se voi glielo chiedeste davvero a mio padre, di Dante, di questo circolo letterario, delle mie trecce, della pasta e di lui che, così burbero, diventava suono quando leggeva la Divina Commedia, probabile che di sta storia si ricordi solo il muro nero. Garantito. E non c’è nemmeno da stupirsene: abbiamo sempre tutti ferite uguali, ma ci portiamo cicatrici diverse. Mio padre a 7 anni mi ha lasciato quel giorno una cicatrice bellissima ed inconsapevole. E per questo lo ringrazio.

 

“Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia,
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte;
vanno a vicenda ciascuna al giudizio;
dicono e odono, e poi son giù volte.”

Okay Ary, qua andiamo via veloci, è semplice.
Dante, al seguito della sua guida Virgilio, passa dal Limbo, primo cerchio della voragine infernale, al Secondo, più stretto e per questo più doloroso. Come un imbuto, che làddove ti mostra la luce, proprio là ti porta alla rovina e alle perdute genti. E proprio qui trova Minosse, pauroso a vedersi, terribilis dictu.
Come quello del mio labirinto! Sì, una roba del genere. Funziona così, seguimi: il peccatore và davanti a Minosse (immaginatelo pieno di cattiveria addosso se non non funziona, impegnati, roba che non muore solo perchè è già morto). E deve dirgli tutti i peccati, senza tralasciarne alcuno. E allora Minosse bene intende la natura dei peccati e il sangue dei loro artefici, e in base a ciò che non sa e ciò che sapere non vorrà mai li aggira con la sua lunga coda. Un giro, due giri, tre giri intorno all’anima: ogni giro un cerchio, ogni giro in più una punizione più grande, un eterno ritorno ancora più devastante non più solo in forma mentale ed astratta. Due giri, e sai che sei stato perduto anche in vita senza saperlo mai. In che senso? Ti spiego dopo.

«O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,

«guarda com’entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!».
E ’l duca mio a lui: «Perché pur gride?

Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».

Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.

Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.

La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.

Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.

Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.

E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali;

di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.

E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’io venir, traendo guai,

ombre portate da la detta briga;
per ch’i’ dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l’aura nera sì gastiga?».

Quel che vede Dante una volta entrato nel Secondo Cerchio, è ciò che inferno è. Le grida, le urla, le bestemmie, quella bufera di dannati, un vento feroce ed inquieto che di qua di là di su lì giù li spinge, li strattona, li attanaglia, li percuote e sempre li lacera o li perseguita, come se fossero degli uccellini storditi o delle gru imponenti nello sfacelo della loro bellezza precoce. E forse proprio vedendo quelle membra senza ordine ove regna il caos, forse così Dante pensa all’amore, alla potenza emblematica dell’eros, alle labbra di quella donna con il vestito rosso-che bella che sei Beatrice, negli occhi tuoi arde un sorriso che credetti coi miei di toccar la punta de’ paradiso, tanto gentile e tanto onesta, donna mia e mai. Tutti avremmo pensato all’amore in quel rivoltarsi d’anime. L’amore è anche un po’ di sofferenza, di incapacità contenitiva erotica, di strazio ventricolare. Altrimenti è ciò che amore non è.

«La prima di color di cui novelle
tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.

A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.

Ell’è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che ’l Soldan corregge.

L’altra è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussuriosa.

Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.

Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch’amor di nostra vita dipartille.

Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.

I’ cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri».

Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».

Chi sono, Virgilio, dimmi chi sono queste anime piene d’amore e che per amore sono morte o condannate, dimmi duca mio. E’ straziante sapere che Dante non chiederà più informazioni dirette sulle anime, nè si interesserà così fortemente a loro, ma saranno sempre queste ad interrogarlo o lui a chiedere direttamente. (Con un pathos che a mio parere si ritrova solo nel distacco tra lo duca mio e il puer, che alla fine, smanioso, tanto pià puer non è). Senza rivolgersi a Virgilio come in questa occasione, quasi timoroso di sfiorare con i polpastrelli la bellezza demoniaca dell’eros, quasi certametne terrorizzato di sapere, tra tutte, un giorno lui. Chi ama male e troppo, va all’inferno. Beatrice. Beatrice. Beatrice. Perchè provi pietà per dei dannati, Dante? Perchè?

Dante, quella è Elena, che tanto dolore lei sola addusse agli Achei chitoni di bronzo. Lei è Cleopatra, che tra le sue cosce nutrì Cesare e il suo fido Antonio, là vedi, pelle ambrata, occhi lunghi, attento Dante.
Vedi Didone, che perì poichè “adgnosco veteris vestigia flammae”, e il grande Achille che tanto combattè e alfin d’amore perì per la pulchra et capta Briseide sfidando i limiti imposti dagli dei, con il tardivo sospetto che gli dei ci invidiano, ci invidiano perché siamo mortali, perché ogni momento può essere l’ultimo per noi, ogni cosa è più bella per i condannati a morte. E tu, Briseide dalle candide braccia, tu non sarai mai più bella di quanto sei ora. C’è un solo istante, ed è ora. Questo momento non tornerà.

Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!».

Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate;

cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido.

«O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.

Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace.

Oa-oa-oaanime-ooanimal.
Come un linguaggio in codice, che solo gli amanti ben sanno, e che Dante perfettamente conosce. Due sono le anime che si staccano dalla bufera-solo per un poco, l’amor non smette mai- per parlare con un essere che tanto grazioso, e pietoso, e pieno di simpatia (nell’accezione greca del termine, “sum” e “patheia”, stare nello stesso sentimento, nello stesso dolore, conoscerne le cause senza guarirne mai. Ma insieme, e qui sta la bellezza). Di quel che vi piacerà udir noi vi diremo, mentre il vento, il vento incessante che mai termina, per raccontare il nostro amor solo allora tacerà. E tace davvero.
Giuro, provate a leggerlo ad alta voce, con le virgole al posto giusto. Sentirete tacere davvero. Davvero.

Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.

Quindi.. Amore che al cuore ingentilito dall’amore, ovvero fatto per amare, si attacca con ferocia e cupidigia e tenerezza, prese Paolo della bella persona ch’io fui..
Amore condusse noi ad una morte…
Mio padre mi guardò inclinando il viso.
Non te la so spiegare questa. Amor ch’a nullo amato.. non lo so.
Ma io l’ho capito, papà, sai? E se dovessero chiedermi che sai fare tu nella vita io la metterei tra le mia competenze. Ci ho messo 12 anni, qualche bruciatura e qualche grammo di cuore andato rotolando sull’asfalto della super stritolato poi dai raggi delle bici di campagna, ci sono voluti gli occhi più belli del mondo e il coraggio di mandarli al Diavolo, ci sono volute notti in bianco e qualche centinaia di libri sull’amore, ci sono volute le notti segrete d’amore che nessuno saprà mai tranne i miei nei, ci sono i tagli e i polsi deboli ma alla fine lo so. Prima cosa, se non hai mai amato qualcuno come si deve, questa frase non la potrai capire mai. E già qui uno potrebbe chiederti “come è amare ed essere amati?” E la risposta più cretina ma spontanea che potrei dare sarebbe: capisci tutte le serie tv d’amore. Ma le capisci sul serio. Poi c’è Dante, e lui la direbbe così, il che ci porta già ad un altro livello. Quando tu sei in un amore con un’altra persona siete in due, e ne formate uno. Inossidabili, incapaci di stare vicini ed ancora di più di stare lontani. Se io nutro questo tipo d’amore per te, la forma più alta d’amore, l’agapè (badate bene, non l’eros), tu non puoi non ricambiare questo. Come il mito di Platone, la mela in Tre uomini e una gamba, per dirvi. Gli inglesi lo esprimono bene. To be in love with. Se io ti amo, tu subentri in questo amore, perchè il mio amore non vada sprecato, ma confluisca nelle tue vene per poi innaffiare le stanze del cuore. E ce ne vuole tanto perchè, si sa, il cuore ha più stanze di un bordello.

Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».

Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».

Che pensi, Dante, quando chini il viso sentendo d’amor altrui?

Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.

Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».

E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.

Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.

Che è successo, Francesca, che è successo?
Dante, perchè porre aceto su una ferita che ancora stilla sangue? Perchè rimembrarmi le notti di brezza nelle fiamme de la tristezza?
Ma Dante deve salvarsi dalla stessa pena di Francesca, e lei lo sa.
Per questo racconta.
E lo salva.

Senza riuscirci mai.

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».

E qua, qua è bellezza pura, e io arrossivo, le gambe erano immobili e la pasta a mezz’aria. Là colpiva la meraviglia, ed ecco il motivo di questo Barnum.
Un libro fu per noi l’inizio e la fine, come solo i libri e gli amori devono essere.
Leggevamo di Lancillotto e della sua mai Ginevra, Dante.
Eravamo soli nel castello, e senza alcun sospetto nelle secrete stanza e nelle infinite cure che allor non ci movevano. Più passi della storia ci sospinsero a degli sguardi,e più ci guardavamo di sfuggita più le membra venian meno, il sangue cirolava in tutte le stanze, il cuore ne stava impazzendo, strabordava, e allora bianche le gote, Dante, bianche. Resistemmo, e resistemmo, ma in eros non si può, e solo un punto..
Solo un punto, ci vinse, Dante. Quando leggemmo della bocca sorridente della bella Ginevra esser baciata da colui che tanto l’amava, Paolo, che mai da me non fu nè sarà diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
L’amore più sublime è quello dove la tenerezza più profonda subentra alla carica erotica più ferina.
La bocca mi bascò tutto tremante. Paolo che la bacia, Paolo che si protende verso di lei, Paolo e le sue labbra, Paolo che la bacia e trema come percosso da febbre, le membra che tremano e il bacio fermo, deciso. La bocca mi basciò tutto tremante. Il verso più bello mai scritto, e non posso commentare avante. Tasca destra in alto.

 

Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.

E caddi come corpo morto cade.

Perchè sviene, papà?
Anche a lui tremavano vene e polsi.
Come per la lupa.
Come per la lupa.
Anche a me tremeranno?
Hai il coraggio di andare all’Inferno?
Sì.
Brava, Arianna.

Grazie papà.

Tasca destra in alto.

 

A cura di Arianna Mariolini

 

Arianna Mariolini

Mi chiamo Arianna Mariolini (Ary). Sono nata il 6 gennaio 1998 a Clusone, in provicia di Bergamo, ma attualmente risiedo a Pisogne, un bellissimo borgo bresciano. Dal settembre del 2012 frequento il Liceo classico Decio Celeri di Lovere. Le mie principali passioni sono la letteratura e la musica...