William Eugene Smith, l’emozione oltre la macchina
William Eugene Smith nasce in Kansas il 30 dicembre 1918, in una famiglia della piccola borghesia.
Si accosta alla fotografia grazie alla madre, in giovanissima età. Dei suoi primi scatti non rimane purtroppo nulla, poiché fu lo stesso Smith a bruciarli nel corso degli anni. Il primo trauma lo sconvolge all’età di 18 anni, quando è costretto a fare i conti con il tragico suicidio del padre, travolto in pieno dai debiti e dalla Grande Depressione. Inizia a collaborare con Life, la più importante rivista fotografica dell’epoca e viene mandato come fotografo in guerra. A questo periodo risalgono alcuni dei suoi scatti più intensi. Smith riesce infatti, tramite le sue foto, a rappresentare la brutalità assoluta della guerra, la sofferenza dei soldati che la combattono e la sua totale empatia con loro.

La sua vita viene ulteriormente stravolta il 23 maggio del 1945 quando, durante una sessione di fotografia sul campo, viene ferito da una bomba che lo colpisce al volto. I due anni successivi sono un vero inferno: un doloroso ricovero in ospedale e una serie di interventi che non riescono però a guarirlo completamente: alcune schegge della bomba, infatti, sono pericolosamente vicine alle vertebre e ciò non permette ai medici di estrarle. Il fotografo entra in un grave stato di depressione, da cui erediterà una dipendenza verso l’alcool e le anfetamine. Smith riprenderà in mano una macchina fotografica solo qualche anno dopo.
Tormentato dai dubbi, infatti, si chiede se sarà mai capace di fotografare ancora, così un giorno durante una passeggiata con due dei suoi figli, realizza quello che sarà uno dei suoi scatti più celebri: “the walk to paradise garden”.

La certezza di poter ancora fotografare determina una rinascita dell’artista, che decide quindi di riprendere a collaborare con la rivista Life. Nel 1948 realizza il suo reportage “Country Doctor”, dove immortala le difficoltà giornaliere di un medico di campagna del Colorado.

Il successo è assoluto. L’opinione pubblica è in visibilio per la commovente rappresentazione e Smith viene innalzato a portavoce dei saggi fotografici di denuncia. Il successo è tale che nel 1951 viene mandato in Spagna dalla rivista per cui lavora. Francisco Franco ha infatti dato la sua autorizzazione per un reportage sui problemi dell’approvigionamento alimentare causato dall’embargo post bellico. Ciò che Smith trova è un paese fermo al medioevo, lontano da tutti i confort della società del tempo. “The Spanish Village” viene ancora oggi considerato come il ritratto più commovente mai realizzato sulla Spagna franchista.

Il suo ultimo, toccante reportage “Minamata”, risale al 1971. Cruda testimonianza dell’inquinamento da mercurio in Giappone, è uno dei suoi lavori più riusciti e gli vale qualche anno dopo la cattedra all’università dell’Arizona.

Smith muore nel 1978 stroncato da una grave forma di diabete. Il suo bianco e nero sporco e intenso, la sua capacità di toccare corde dell’animo umano e creare turbamenti emotivi lo rendono ancora oggi uno dei mostri sacri del fotoreportage statunitense. La sua capacità innegabile è quella di non neutralizzare la realtà, ma ricomporla e riunirla all’emotività personale di chi guarda la foto, facendola diventare sentimento più che descrizione.
« A cosa serve una grande profondità di campo se non c’è un’adeguata profondità di sentimento? »