Spagna, realismo e autenticità : un esperimento

a cura di Simone Innico

Una storia lunga circa venticinque secoli è quella che racconta tutti tentativi intrapresi dal pensiero greco-cristiano e poi moderno per rendere conto di un’unica, umanissima, richiesta: la vita felice. Come si fa a vivere felici? (Aristotele); qual è la vita veramente felice? (sant’Agostino); come devo condurre la mia vita per essere meritevole di felicità? (Kant); o ancora –se la felicità è lo stadio di massimo piacere esperibile– che cos’è questo piacere e come posso calcolarlo? (utilitarismo)1.

La felicità non si presenta come una via scontata. Piuttosto: una creatura insolita e paurosa, che sfugge, che non lascia traccia. Felicità è, come dice Julian Marías (1914 – 2005), il nostro imposible necesario.

Pare che questa strana bestia pretenda da noi un’infinita ricerca o –perché no?– una infinita creazione.

Nessuna felicità ci è data: che ognuno si produca la sua. Potrebbe figurare come motto esistenzialista. E tra tutti gli esistenzialismi che hanno attecchito in Europa nella prima metà del secolo scorso, uno in particolare è cresciuto attorno a la linea speculativa dell’eudemonismo, che dal pensiero greco arriva dritto ai giorni nostri: José Ortega y Gasset (1883 – 1955) e il suo allievo Xavier Zubiri (1898 – 1983) sono i capostipiti di quella scuola di pensiero che trova in una critica all’analisi esistenzialista heideggeriana (letta attraverso la divulgazione sartriana) uno strumento per rispondere a quell’imposible necesario. Un’istanza che la vita umana, da secoli, sbatte in faccia alla filosofia.

L’esistenzialismo spagnolo è certamente imparentato con gli altri esistenzialismi europei, ma non per questo si risparmia l’elaborazione autonoma di categorie e direzioni speculative propriamente sue. Lo studio dell’esistenza umana e del suo essere-nel-mondo (in-der-Welt-Sein) si traduce, nel pensiero del maestro Ortega, nella comprensione prospettica dell’intreccio delle esistenze umane. Un intreccio la cui imbastitura sono, ovviamente, le due questioni della morale e della felicità (individuale e collettiva).

La tendenza dell’esistenzialismo spagnolo è quella di chiamare questo difficile incontro tra etica e felicità –questa “vita lieta e giusta”–: un’esistenza autentica. Una vita condotta nella dimensione dell’autenticità.

Se dobbiamo avere a che fare con la filosofia spagnola, sarà bene percorrere a ritroso la scala che ci ha condotto sulle nuvole delle grandi domande storiche (cos’è questa cosa chiamata felicità? cos’è in verità la vita giusta? com’è fatta la giustizia? quali sono le condizioni di possibilità di una vita felice e al contempo eticamente corretta?). Scendiamo giù.

Siamo nella terra del sole cocente e delle lunghe mesetas. Non c’è trascendenza verticale: il pensiero viaggia parallelo al terreno. La sola trascendenza è l’orizzonte che sobbolle nell’afa, che mescola cielo e deserto, che cuoce il cervello e la lingua.

La filosofia spagnola è filosofia paleta2. Non è il caso di farsi scrupolo. Se non altro, non se lo fa neanche María Zambrano (1904 – 1991), grande pensatrice andalusa, allieva di Ortega e di Zubiri: «da tutte [le] povertà e limitazioni dell’intelletto spagnolo, inetto per la filosofia sistematica, […] sorge una ricchezza»3. La filosofia spagnola non è capace di grandi architetture, non riesce a sollevarsi oltre il metro e settanta. Ma forse per questo –per questa sua sciocca e splendida immediatezza– la Spagna ha prodotto il più grandioso realismo che la storia della filosofia abbia mai conosciuto. «Il realismo, il nostro realismo incorruttibile, pietra di volta di tutta l’autenticità spagnola, non si condensa in nessuna formula, non è una teoria»4.

Tutto il pensiero spagnolo –che ne sia consapevole o meno– è attraversato da un senso di radicale realismo. Un realismo così radicale e profondo che lascia in bocca un sapore di zolle di terra.

Noi altri europei, con gli occhi che vagano nell’infinito, siamo tanto sfacciati da fingere di aver catturato la realtà nel nostro sistema: non l’abbiamo catturata, l’abbiamo solo sognata5. La nostra è un’astrusa finzione: un realismo che è idealismo, una vuota immagine della realtà. Al contrario gli spagnoli, come diceva la Zambrano, il loro pensiero lo vedono «sorgere» da sé «come il differente e irriducibile a sistema»6. Quasi fosse uno sbaglio, un errore imprevisto.

Tentare di sistematizzarlo sarebbe tradirlo, sarebbe soppiantarlo con una fredda maschera morta; […] non c’è sistema che possa compendiare il realismo, questo nostro scontroso e indomito realismo 7.

Alcuni stereotipi sono confermati: la Spagna non immagina, non si ferma e riflette. Parla senza tanto pensare. Ma questo è il suo oro nero. Il suo realismo non è un costrutto concettuale: sale fuori dalla terra come un’erbaccia infestante e urticante –ma molto saporita da farci il risotto–. Un realismo che solletica la pelle e s’attorciglia a uno spirito di profonda, spontanea, inalienabile felicità.

Uno spagnolo può essere triste, ma sarà un uomo felice che attraversa un momentaneo stato di tristezza. Gli spagnoli sono felici. Non solo nell’anima: nella carne, nelle ossa, fin dentro al midollo. La felicità sorge loro spontanea dietro gli occhi, sgorga dalle loro vene.

È tutto qui. È così. La Spagna è «in Europa, il paese più facile da capire, ma succede che la gente ce la mette tutta per non capirlo»8.

Il realismo spagnolo scaturisce dalla stessa autenticità dell’esistenza. Non è il concetto distaccato del realista metafisico: è un corpo umano che suda, respira, sanguina, caga. Che a volte si siede e, sì, fa anche filosofia. E non è un freddo logismo dell’esistenzialismo franco-tedesco: nella gola di un filosofo spagnolo, la autenticidad ha un sapore diverso:

sembra che la filosofia ricopra una funzione capitale, centrale, necessaria nella vita umana ma, pur tuttavia, […] c’è una funzione vitale, essenziale, inseparabile della vita umana che non è filosofia. La filosofia è […] una funzione vicaria di questa. […] E questo ci porta al problema dell’autenticità9

Metabolismo del pensiero filosofico, anatomia dell’esistenza umana. La necessità primaria della nostra vita è l’autenticità. La filosofia viene, se e quando serve, in sua funzione.

Il significato superficiale di autenticità sembra essere il sinonimo di “sincerità” o “naturalità”. Ma non è abbastanza: tutte e tre sottendono all’implicita semantica di completezza.

Parole come giusto e sbagliato, bene e male, e dovere, hanno spesso una doppia valenza etica ed esistenziale: cosa è bene fare? cosa è bene che io faccia nella vita? qual è il mio dovere? cosa devo fare per essere nel giusto?

Alle domande esistenziali, come a quelle etiche, si accosta sovente un senso di dissociazione: com’è e come dev’essere, le aspettative e il risultato, la buona volontà e le promesse infrante. Ed è in questa direzione di pensiero che l’autenticità diventa il sogno di completezza e ricongiungimento tra cause e fini, tra mezzi e propositi. Autenticità è la dissoluzione della dissociazione, etica tanto quanto esistenziale.

L’umano ha bisogno di interpretare la realtà. [Deve], per poter vivere, sapere a cosa aggrapparsi; questa è la funzione capitale [e] da venticinque secoli, lo sta facendo filosoficamente, buttando giù quelle che io chiamo le questioni radicali, […] senza le quali non si può vivere autenticamente 10

Queste cuestiones radicales, prese in carico dalla filosofia, appartengono –a dirla tutta– all’esistenza umana in quanto tale. Sono le stesse domande che ci si pone al risveglio dopo una bella trona –oppure quando ti sale male male–: chi sono? che cosa ci faccio qui? esiste davvero tutto ciò che credo reale? qual è il senso di tutto ciò? cosa ne sarà di me? cosa ne sarà di noi tutti? E non sono monopolio accademico: sono domande inscritte dentro la nostra anatomia. Ed è dal confronto con queste che si produce una vita autentica. Dal confronto, non dalla risposta. Dice Julian Marías, col suo perenne occhiolino:

Ricordatevi della semplicità delle prime filosofie: i filosofi presocratici sono di una semplicità, in qualche modo, disarmante… che povertà di pensiero! […] Ciò che hanno di interessante è la domanda, […] l’uomo presocratico fronteggia la realtà, la totalità della realtà, e domanda: che cos’è, che cos’è tutto questo? 11

Dallo schiaffo esistenziale che la realtà produce dentro la vita umana, scaturiscono queste cuestiones radicales ed è dal loro confronto che si restaura l’autenticità, si dissolve la dissociazione. E stesso valga per la questione della felicità. «Colui che si lascia vivere semplicemente trasportato dalle circostanze, […] o che semplicemente aspetta […] una rivelazione, questo a Platone non gli pare propriamente vivibile, non gli pare una vita rigorosamente umana, diremmo una vita autentica»12. Non sarà l’attesa passiva a procurarci questa strana creatura –non sarà una rivelazione a mostrarci la grazia della felicità–. Ma sarà la caccia, la ricerca instancabile. E gli infiniti esperimenti, per tentativi ed errori.

Ma siamo ancora in Spagna, nella patria dell’immediatezza. Una fisica senza metafisica, il pensiero spagnolo, che non sa mediare tra realismo e realtà e confonde le parole di uno con le forme dell’altra. Immediatezza è il sinonimo più prossimo all’autenticità spagnola.

Come tutto ciò che passa tra le mani della Spagna, anche questa nozione ha acquisito un sapore diverso: un sapore reale.

E vorremmo tornare tra le nuvole delle grandi definizioni imperiali. Ma dov’è la felicità? Cos’è l’autenticità? Come posso essere nel giusto e meritare di essere felice? Sono veramente autentico?

No. Nessuna metafisica, nessun sistema. La felicità? Pensa alla morte. Perché la riflessione sugli elementi costituivi dell’autenticità scaturisce dalla riflessione sulla fine dell’esistenza. Un esperimento semplicissimo:

se proseguiamo con piena sincerità e fino in fondo a questo esperimento mentale, se pensiamo a quale sarebbe il nostro stato d’animo nell’imminenza della morte, a tre giorni di distanza, potremmo misurare con straordinario rigore il grado di autenticità della nostra vita 13

È così che «grazie alla presenza della morte» –presenza sempre incombente, sempre imminente– riusciamo a porci nella «prospettiva della felicità»14. E misurarla con precisione esatta. La misura della nostra felicità è inversamente proporzionale alla quantità di modificazioni che la nostra vita subirebbe se sapessimo di dover morire dopo-dopodomani.

Pare che, in una conferenza tenuta nel 1961, alla domanda «Come dovremmo fare per recuperare l’autenticità nella nostra vita?», Martin Heidegger abbia risposto «Dovremmo tutti trascorre più tempo nei cimiteri»14. Sic et simpliciter. L’umano mortale deve guardare alla sua morte come all’unica certezza del suo futuro –più o meno prossimo– perché da questa riflessione scaturisce l’impulso verso l’esistenza autentica: Heidegger esamina questo fenomeno attraverso la categoria interpretativa (“esistenziario”) che chiama essere-per-la-morte (Sein-zum-Tode).

Sembra che Julian Marías abbia tradotto quella trista nozione di essere-per-la-morte in una riflessione sulle conseguenze deflagranti che l’imminenza della morte produce sulla nostra idea di felicità.

La felicità vista con gli occhi della morte. La prospettiva della morte è il punto d’appoggio per leggere la cifra della felicità. Se dovessi morire tra tre giorni? Se oggi fosse il mio ultimo giorno, come vorrei aver vissuto tra ieri e l’altro ieri? Ebbene: questo pensiero definisce la mia felicità più autentica.

Un’affascinante caratteristica di tale nozione di felicità è che –a differenza delle storiche definizioni che ogni autore ha esaurientemente articolato in tutti i dettagli e precisazioni– questa non definisce un bel niente. È una funzione: ad ogni argomento associa un valore. Ma l’argomento è una variabile, così di giorno in giorno la mia felicità può spostarsi di qualche passo più in là o capovolgersi completamente.

Con lo sciocco esperimento di Julian Marías abbiamo trovato una funzione che cattura, tra tutte le possibilità e variabili, quali che sono le precise determinazioni della nostra felicità. Ora. Nell’esatto momento in cui ci fermiamo e ce lo domandiamo.

Julian Marías, lo vediamo, si sta muovendo su una prospettiva decisamente non-metafisica: nella dimensione più terrena della vita umana, l’etica e la morale sono pratiche inclusive15. Fai così, come me, e vedrai che condurrai una vita giusta e felice. Una vita più autentica.

Nessuna massima o imperativo, bensì una proposta. Prova a fare questo esperimento16.

Io, ad esempio, direi che mi basterebbero un tavolo e una lampada, un poco di famiglia e amici radunati intorno. E parlare, pensare insieme. Cercare di afferrare un brandello di senso. Cercando al tempo stesso di sopravvivere a questa estenuante ricerca di significato. Tirare il fiato, ogni tanto. E provare ad affrontare –insieme– e superare –da soli– certe cuestiones radicales, come questa certezza imminente che è la mia morte. Come lo è la morte di tutti.

Così, e nient’altro. Giusto un po’ di mare in più, ecco.

E tornare in Spagna. Por supuesto.

 

Costa da Morte, luglio 2016

~

Mentre scrivevo questo articolo ho conosciuto la straordinaria musica di Gata Cattana. Poetessa rapper andalusa. Attivista femminista e politologa. Una artista totale, creativa, riflessiva e originalissima. È morta di infarto due settimane fa: per questa notizia l’ho conosciuta. A maggio avrebbe fatto 26 anni.

Non ho trovato nessuna eclettica manovra per concludere la riflessione sul realismo e sulla autenticidad nella filosofia spagnola, sulla felicità e sulla morte, legando il tutto alla musica di Gata Cattana. E neanche avrei intenzione di farlo.

Dirò soltanto che faceva una musica strana ed intensa, e scriveva poesie esplosive. Era viva quando ho cominciato a scrivere, era già morta quando ho finito.

intervista a Gata Cattana

Lo siete contro Tebas (2013)

Todo lo demás, no (actuación en el programa Show de Rimas)

 


 

 

  1. Ho tratto questa “quadripartizione” della secolare questione sulla felicità, come anche alcuni dei testi citati più avanti, direttamente dall’antologia Tras la felicidad moral (Cátedra, 2015), curata dal professor Enrique Bonete Perales, dell’università di Salamanca.
  2. paleto: rustico, cafone, rozzo.
  3. María Zambrano, El realismo español in Pensamiento y poesía en la vida española (1939)
  4. Ibid.
  5. «[Ortega y Gasset] pensava di scrivere un saggio intitolato Genialità e sfacciataggine nell’idealismo trascendentale. Perché […] i grandi filosofi idealisti tedeschi, la cui genialità è evidente, avevano una certa passione per la grande costruzione intellettuale […] ed erano disposti talvolta a forzare un poco l’evidenza […] dando un coup de pouce alla realtà per farla entrare dove questa, da se stessa, spontaneamente, non entra» (Julian Marِías, Filosofía y autenticidad, conferenza a Madrid, 1999)
  6. María Zambrano, op. cit.
  7. Ibid.
  8. Julian Marías, España intelligible: Razón histórica de las Españas, 1985
  9. Julian Marِías, Filosofía y autenticidad
  10. Ibid.
  11. Ibid.
  12. Ibid.
  13. Julian Marías, La felicidad humana, 1987 (corsivo mio)
  14. La citazione si trova un po’ dappertutto sul web. Io l’ho sentita riportare –senza alcuna contestualizzazione se non, appunto, solo questa tale “conferenza nel 1961”– da Alain de Botton di The School of Life nel suo video-lezione su Martin Heidegger: se anche gli fosse stata falsamente attribuita, sarebbe una citazione pienamente in linea col suo pensiero.
  15. Julian Marías, La felicidad humana
  16. Una obiezione a qualsiasi argomento filosofico –come questo– che cerchi di indicare un legame tra felicità individuale e vita eticamente corretta (ed esistenzialmente autentica), è il classico “contro-esempio dello psicopatico”, l’omicida che trae felicità nel commettere azioni generalmente considerate non morali. Per confutare queste teorie eudemonistiche, dovremmo immaginare il caso di uno psicopatico? diciamo un potenziale omicida seriale che, prima di commettere il suo omicidio, si faccia lo scrupolo di leggere Julian Marías, pensare «Vediamo… cosa farei se fossero gli ultimi tre giorni della mia vita…?» e dopo aver deciso per il prossimo omicidio dirsi rincuorato perché «Se faccio quello che mi procura felicità, sono nel giusto». È questo forse il caso che invalida la teoria di Julian Marías? Ma che razza di argomento è poi questo? Solo uno che potrebbe proporre un filosofo pistino come Peter Singer (in Practical Ehics, cap. 12). Il problema con quei filosofi che sostengono argomenti del genere è che sono daltonici all’etica in quanto pratica umanamente umana: la si intende come “istanza assoluta”, “criterio di giustizia determinato a priori” –come un software per calcolare la correttezza formale dei principi morali–. Una cosa, questa, che l’etica non è.
  17. Facciamo solo attenzione a non cadere nel tranello metafisico, e decollare. Abbiamo trovato la chiave della felicità! Il mondo è salvo! Evitiamo. Voliamo piano e basso, non allontaniamo la filosofia spagnola dalla terra ferma a cui appartiene. L’esperimento di Julian Marías è un esperimento pensato su misura per noi –i privilegiati– che possiamo permetterci di avere tutto e proclamarci, ciò nonostante, “infelici”. Ma ci sono altri umani che, come noi, abitano sulla terra e sotto il sole, e per i quali tuttavia nessuna analisi esistenzialista ha alcun valore: condurre una vita felice presuppone, ancora prima della “ricerca della felicità”, che la vita sopravviva.