Rose, gatti e fette di formaggio.

a cura di Simone Innico

I gatti hanno una coda, quattro zampe e cinque lettere

Cos’è successo in questa frase?
È successo che ho giocato con una delle parti più divertenti del linguaggio. A volte è davvero sorprendente quanto le parole siano potenti, quante cose possano fare, quante cose possono rappresentare e quanti significati possono portare.
Ad esempio: è davvero un’idea curiosa che i gatti, tutti i gatti, abbiano una coda, una sola per tutti quanti.
Ecco è successo di nuovo. Ho giocato con i diversi sensi in cui si può intendere la parola “gatto”: il senso ovvio della prima parte di quella frase era che tutti i gatti, ogni gatto, hanno una coda, una per ognuno.
Ma vi è qualcosa di curioso anche in questo: so dell’esistenza di almeno una specie di gatto-senza-coda, e so benissimo che possono esistere gatti che, per nascita o per incidente, non hanno nessuna coda. Ciò nonostante tutti questi esemplari di essere vivente vengono chiamati “gatto” (ognuno preso singolarmente, evitiamo le ambiguità!).
Questo è un bel ragionamento che permette di riconoscere una distinzione fondamentale, forse tanto antica quanto è antica la filosofia: la differenza tra il gatto e un gatto. Tra l’universale-gatto e l’individuo-gatto.
Ora sì, possiamo dirlo. Il gatto ha una coda e quattro zampe. Al contrario un gatto – un individuo della specie gatto – ha probabilmente una coda e quattro zampe, ma potrebbe anche averle perse tutte. Poraccio, ma resta pur sempre un gatto. Giammai il gatto, l’universale-gatto.
Ma allora, che dire della seconda parte di quella prima frase? Cosa vuol dire che i gatti, tutti i gatti o forse ogni gatto, o forse un solo gatto preso singolarmente, hanno tutti cinque lettere?
Quest’ultimo gioco è forse il più semplice. Ovviamente non ha alcun senso dire che il gatto, povero animale, ha cinque lettere. Piuttosto è vero che il vocabolo “gatto” ha cinque lettere.
Diciamo meglio: in italiano, è vero che il vocabolo che sta ha indicare la specie dei gatti e i suoi singoli esemplari, ha cinque lettere. In Spagna, ad esempio, i gatti hanno una lettera in meno. Non è del tutto vero: il gatto (gato) ha solo quattro lettere, ma i gatti (gatos) hanno sempre cinque lettere. E sull’Isola di Man, nel Mar d’Irlanda, vi sono gatti senza la coda.

Ho il mal di mare.

Facciamo un po’ di ordine. E diamo qualche definizione.

 

Un type non è un token

Quando ero piccolo, ero solito porre a mia madre alcune domande fastidiose come: «quanti pesci ci sono nel mare?» oppure «quanti capelli ho in testa?» o ancora più in generale «quante cose ci sono nel mondo?». Domande del genere, oltre a pretendere la risposta «Stai zitto!», rivelano una particolare attenzione per ciò che in logica e linguistica si chiama un token.
Se, ad esempio, alla domanda sul numero di pesci, mia madre avesse risposto: «Be’, ci sono i pesci pagliaccio, i pesci palla, i pesci volanti, …» io avrei subito protestato. Non volevo sapere quanti tipi di pesce esistono, bensì qual era il numero esatto dei pesci, presi singolarmente e concretamente uno per uno. I token sono individui particolari e tangibili, localizzati univocamente in uno spazio-tempo.
Un type (tipo), è invece un concetto astratto che sta a indicare, in generale, una categoria di individui. Un dettaglio fondamentale e molto interessante della distinzione type/token è questo: ci sono molti più token, piuttosto che type.
Il numero di pesci-token nel mare è infinitamente superiore al numero di pesci-type.
E per quanto riguarda i capelli che ho in testa, se dovessi contare ogni singolo capello-token, impiegherei forse qualche mese. Ben più facile è il conteggio dei capelli-type: sulla mia testa c’è un solo tipo di capelli, ed è il tipo castano scuro.
Pensiamo ai modelli delle macchine. Quando diciamo che Gianni e Angelo guidano la stessa macchina, stiamo in realtà dicendo che Gianni e Angelo guidano due differenti esemplari dello stesso modello di automobile. Due differenti token dello stesso type.
Finché parliamo di cose, il gioco è abbastanza semplice. Quanti type ci sono nel mondo? Molti. E quanti token, invece? Molti di più, forse infiniti.

Ora, complichiamo di nuovo le cose.

Parliamo di parole.

 

Un type non è un token, e un token non è un’“occorrenza”

Quando ci mettiamo a studiare il linguaggio, la prima distinzione type/token cui dobbiamo fare attenzione è tra il livello concettuale e il livello concreto – scritto o parlato – in cui possiamo trovare le parole. Ad esempio: I gatti hanno una coda, quattro zampe e cinque lettere.

Vi è un solo type di questa proposizione, ma vi sono tanti token quanti sono i monitori sui quali i pixel neri e bianchi andranno a disegnare i segni e le lettere che la compongono. Di fatto, questa frase qua sopra in corsivo e il titolo della prima sezione dell’articolo sono due token diversi dello stesso type di proposizione.
Ma quando all’interno di un testo compaiono più volte le stesse parole, diremo che esse sono diversi token dello stesso type?
Forse sì, forse no. Dipende.
Sempre nella prima sezione dell’articolo, la parola “gatto” (in italiano, al singolare) è comparsa 19 volte. Si tratta di 19 token? Se stiamo considerando il testo al livello concreto, in pixel su un monitor, certamente sì. Ma se stiamo parlando del testo al livello concettuale, ebbene, forse no.
Il testo esemplare prediletto per spiegare questa titubanza è un verso della poetessa statunitense Gertrud Stein:

Rose is a rose is a rose is a rose.

(“Sacred Emily”, 1913)

La domanda è: quante parole ci sono in quel verso?
Se consideriamo il testo in sé, concettualmente – come il verso di Gertrud Stein che ha scritto la poesia “Sacred Emily” – ci sono 3 type di parole: “rose”, “is” e “a”.
Se invece consideriamo il testo in quanto un testo concreto, stampato in un libro concreto, con inchiostro concreto, ebbene: ci sono 10 token di parole: “Rose”, “is”, “a”, “rose”, “is”, “a”, “rose”, “is”, “a” e infine “rose”. (Per l’amor del cielo non consideriamo l’idea che Rose con la maiuscola sia da distinguere da rose con la minuscola, se no non finiamo più).
Eppure, ci verrebbe da chiedere, in un certo senso anche nella frase astratta “Rose is a rose is a rose is a rose”, nel testo al suo livello concettuale, ci sono 10 parole. Sì, ma in quale senso?
Nel senso delle “occorrenze”, per l’appunto.
Nel senso delle volte in cui un certo termine compare in una frase-type, come potrebbe essere una frase famosa o un detto popolare che non sono frasi concrete fatte di segni vocali o scritti. Ecco, pensiamo alle frasi famose depositate nell’immaginario di tutti. Per comprendere questo nuovo senso, pensiamo anche ai personaggi immaginari. Pensiamo a Game of Thrones.
Finora, dalla prima stagione alla settima, Arya Stark è comparsa in 52 episodi su 67. Volendo potremmo contare ogni singola scena in cui l’attrice Maisie Williams è inquadrata, così avremmo un conteggio ancora più preciso delle “occorrenze” del suo personaggio. Volendo. Ad ogni modo, su 67 episodi della serie possiamo contare 52 “occorrenze” del personaggio Arya Stark, nonostante Arya Stark sia sempre la stessa. A meno che non consideriamo l’idea che «Una ragazza non ha nome» (cit) ma non divaghiamo.
Le “occorrenze” sono fatte, in qualche modo, come le ricorrenze. Esiste il Natale, ed è uno solo: è un type. Ma possiamo legittimamente domandare: quanti Natali ci sono in un anno solare? ovvero quante volte ricorre il Natale durante un anno-type (e non in questo preciso anno solare, 2017)? ovvero quante “occorrenze” di Natale? Risposta: una.
Curioso notare che alcune istituzioni sociali, come la narrativa e le feste comandate, siano in questo molto simili al linguaggio. Anzi, non è curioso affatto.
Dunque di un testo-type si danno “occorrenze” di parole. Ma è solo nel testo concreto, e non nel testo astratto, che si danno token di termini: l’intero testo concreto è un token e le sue componenti sono token anch’esse.
C’è una bella spiegazione a sostegno di questa distinzione. Molto bella e davvero molto, molto complicata, perché è una questione di logica formale.
Ma invece di ubriacarci di simboli e formule aggrovigliate, possiamo accontentarci di una considerazione meno rigorosa, forse un po’ chiacchierona, ma sicuramente interessante: c’è una differenza tra “token” e “occorrenza” perché le parole servono proprio a questo. A distinguere. A separare e catalogare. Sono lo strumento orientativo del quale ci serviamo per non perdere la strada all’interno della realtà.

 

Una “rosa” con un altro nome avrebbe lo stesso profumo

Vi è un senso in cui ogni rosa è una rosa differente, ed è il senso della rosa concreta individuata in un preciso spazio-tempo (token).
Vi è un senso in cui ogni rosa è la stessa rosa, nel senso che ricade sotto la categoria astratta della rosa, in generale (type).
Vi è un senso in cui il vocabolo “rosa”, ogni volta che compare in un testo astratto (una frase famosa, ad esempio), è una parola differente (“occorrenza”).
Vi è, infine, un senso per il quale se anche quel singolo oggetto concreto – che in italiano, spagnolo e portoghese, siamo soliti chiamare “rosa” – avesse un altro nome, esso sarebbe sempre lo stesso oggetto. Questa eventualità ce la suggerisce nientepopodimeno che William Shakespeare, attenzione. Come scrive Gertrude Stein, una rosa è una rosa è una rosa è una rosa, è vero. Ma è anche vero che una “rosa” con un altro nome avrebbe lo stesso profumo (Romeo e Giulietta, atto II, scena II). Di fatto, in altre culture e in altri idiomi, la rosa che noi chiamiamo “rosa” è sempre una rosa ma non si chiama “rosa”.
Parlando ancora di token e type: è da notare che noi umani diamo nomi-type sia per cose-type che per cose-token, ma ogni volta che chiamiamo una cosa pronunciando la parola che le corrisponde, diamo voce a un nome-token.   Il gatto si chiama “gatto”, ma quel gatto si chiama “Wittgenstein”. E ogni volta che lo chiamo «Wittgenstein!» non si tratta di un’“occorrenza” del nome, ma di un vero e proprio nome-token.
Ad ogni modo, prima che il primo botanico arrivasse nel primo giardino e scegliesse quel nome per quel fiore (quel type di nome per quel type di fiore), la rosa se ne stava tranquillamente lì, senza nome. Senza alcun concetto che la distinguesse dal resto del giardino: prima del linguaggio, la realtà è un tutt’uno indistinto.
Questa è forse la bellezza più grande di questo complicato gioco che noi umani giochiamo per tutta la vita: il linguaggio ci serve a orientarci nella realtà, certo, ma non ha alcuna presa su di essa. Il linguaggio non ha niente a che vedere con la realtà, eppure di essa fa parte.
Vi è un’idea molto semplice dietro a questa constatazione: l’idea che il mondo esisterebbe esattamente come esso è se l’essere umano non vi abitasse. O meglio, la realtà che circonda la nostra esistenza non è un prodotto della nostra conoscenza e del nostro linguaggio: se smettessimo di chiamare “rosa” la rosa, essa resterebbe pur sempre la stessa cosa che era prima.

La realtà è come essa è, a prescindere dalle nostre parole.
Eppure gli unici strumenti di cui disponiamo per considerare e parlare dell’idea che la realtà sia così indifferente alle nostre parole sono, appunto, sempre questi: la nostra conoscenza e il nostro linguaggio.

 

Ante rem, in re, post rem.

Tutto questo marasma di considerazioni potrebbe essere preso e riformulato nei termini della storica disputa sugli universali, una faticosa questione sulla quale si è dibattuto a lungo per quasi tutto il millennio del Medioevo. Parlando di rose, una questione spinosa.
La “rosa”, concetto astratto, non è la singola rosa che trovo nel mio giardino. È un concetto astratto, è la rosa in generale, la categoria essenziale di tutte le rose.
La domanda era: dove stanno questi concetti astratti? Chiamateli “universali”, chiamateli type, però ditemi dove si trovano.
Ante rem. Vi è un luogo dove tutti gli universali sono contenuti prima di essere usati per pensare e nominare le cose? Sottinteso: la mente di Dio?
In re. Oppure è qualcosa che ritrovo in ogni singolo oggetto che osservo, qualcosa che mi fa dire  «rosa» quando vedo una rosa o «Wittgensteini!» quando vedo il mio gatto?
Post rem. Oppure questi universali sono idee che costruiamo a partire dalla conoscenza che abbiamo delle differenze e somiglianze tra cose del mondo, quindi chiamiamo con lo stesso nome cose che, pur non essendo la stessa cosa, meritano di essere inserite nella stessa categoria concettuale?
L’unica cosa che resta certa è quanto abbiamo detto finora: le parole sono lo strumento con cui facciamo a fette la realtà che ci circonda. Anche per fare a fette la realtà del linguaggio stesso, per studiare e comprendere come esso funziona e quali sono i suoi limiti, per studiare type, token, “occorrenze” e “universali”, non abbiamo nient’altro che questo: linguaggio.

 


 

Nota al piè: Rosenzweig vs. Savino Pezza


Parlando di fette, consideriamo infine il formaggio. E la differenza tra quella singola fetta concreta che sto per mangiare e il formaggio in generale, l’essenza del formaggio, la “formaggità”.
Concludo allora con un capolavoro di divulgazione filosofica che ho conosciuto anni fa, prima ancora di sapere cosa fossero type, token, “occorrenze” e “universali”. Lascio la parola a Natalino Balasso:

    Voi tutti sapete che ci fu negli anni ’40 una grande polemica, una grande querelle, un grande dibattito, un grande litigio – ho già esaurito i sinonimi – tra quello che forse è il più importante teorizzatore della comunicazione – lui: il Rosenzweig – e un suo grande antagonista: Savino Pezza.
Sapete che la polemica riguardava l’aneddoto del formaggio, che era un esempio che il Rosenzweig citava a suffragio delle proprie teorie. Che cosa ci dice il Rosenzweig?
Quando io vado ad acquistare un pezzo di formaggio, probabilmente avrò già nella mia testa un’idea del formaggio, un’idea che però mi sarò formato grazie a un processo mnemonico. Io non ho ancora mangiato quel pezzo di formaggio, ma ricorderò di averne mangiato un altro precedentemente. Però attenzione, perché tra il pezzo di formaggio che ricordo – che ho già mangiato, che c’è nella mia testa – e il pezzo di formaggio che il salumiere mi sta incartando in questo momento e che devo ancora mangiare non c’è alcun nesso sostanziale. Quand’anche io andassi a chiedere al salumiere di spiegarmi quale sia l’essenza del formaggio, ma non di quel singolo pezzo – badate bene – non alludo a quel pezzo di formaggio ma al formaggio in generale, alla formaggità… Be’, Rosenzweig afferma che a questa domanda probabilmente il salumiere non saprebbe rispondere.
Vedete, in tutto questo ragionamento l’unica cosa che rimane invariata è la parola “formaggio”. E’ una parola, un significante senza significato, un vestito esteriore che non vi spiega nulla dell’interiorità, dell’essenza del formaggio. E’ un cappottone vuoto.
Savino Pezza inserisce una piccola variante a questo ragionamento. Egli afferma: ammettiamo che il Rosenzweig vada ad acquistare un pezzo di formaggio. Ammettiamo anche che chieda al salumiere di spiegargli quale sia l’essenza del formaggio. Non di quel singolo pezzo, bensì l’essenza del formaggio in generale, la formaggità. Ora, ammettiamo che il salumiere esca dal bancone e gli sferri un calcio nei coglioni.
Interesserà ancora al Rosenzweig conoscere l’essenza del formaggio? Mangerà ancora formaggio in vita sua in seguito? E soprattutto: quando riprenderà a respirare? Questi sono i quesiti che l’intellettuale deve porsi secondo il Pezza!

Il Balasciò (monologo comico a quadri) di Natalino Balasso (2001) – minuto 16:55: