Il pomerium : Romani oltre ogni limite

a cura di Roberto Testa

 

L’11 gennaio del 49 a.C. Giulio Cesare, proconsole in Gallia, insieme alla sua cara e fedele XIII legione, attraversò il fiume Rubicone, che era il limite settentrionale del famoso pomerium, “territorio” e zona sacra di Roma.

Ma facciamo un salto indietro di circa 700 anni.. Cosa era il pomerium?

Stando ad uno dei racconti mitologici più quotati sulla fondazione di Roma, Romolo, il primo re, ricevette sul colle Palatino un auspicium (una sorta di segno favorevole o di indicazione da parte degli dèi) divino, attraverso la visione del volo degli uccelli come ci descrive il grande storico di Roma Tito Livio nella sua più grande opera sulla storia di roma “Ab Urbe condita” :

“Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo. Dal momento che a Romolo ne erano apparsi il doppio quando ormai il presagio era stato annunciato, i rispettivi gruppi avevano proclamato re l’uno e l’altro contemporaneamente. Gli uni sostenevano di avere diritto al potere in base alla priorità nel tempo, gli altri in base al numero degli uccelli visti. Ne nacque una discussione e dal rabbioso scontro a parole si passò al sangue [..] Remo, per prendere in giro il fratello, avrebbe scavalcato le mura appena erette [il pomerium] e quindi Romolo, al colmo dell’ira, l’avrebbe ucciso aggiungendo queste parole di sfida : “Così, d’ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura”.”.

Ci sarebbe davvero tanto da dire su questa vicenda, anche perché gli autori di tutte le nostre fonti, Tito Livio o Dionigi di Alicarnasso che siano, non sono contemporanei al periodo di cui narrano, ed essi stessi “ammettono” in qualche maniera la non completa veridicità del mito : è infatti una delle tante storie mitologiche per spiegare la fondazione e in qualche modo rendere legittimo il potere (o giustificarne la nascita).

Ma ritorniamo al concetto principale : il pomerium. Affidiamoci ad una definizione dello stesso Tito Livio (Ab Urbe Condita, I, 44) :

“Pomerio significa postmoerium, cioè al di là del muro, ma esso è piuttosto un luogo intorno al muro, che gli Etruschi usavano consacrare mediante gli auspici augurali e fissare con cippi di pietra, quando volevano costruire le mura di una città”.

Forse Romolo non utilizzò i cippi di pietra, ma un aratro e scavò una fossa tra due mura, gettando un po’ di terra nel mezzo, ma è innegabile il fatto che, soprattutto per l’impianto sacrale/religioso, Roma debba molto alla cultura etrusca : è proprio da essa che deriva il culto per i morti, l’aruspicina (leggere il volere degli dèi) oppure il sistema di urbanizzazione (dodecapoli, città unite) o qualche innovazione tecnologica (bonifica del territorio o fognature, tra le quali la stessa cloaca maxima).

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“Ab Urbe condita”, cioè dalla fondazione di Roma, il pomerium diventerà sacro e inviolabile; infatti, la principale caratteristica del pomerium era che non lo si poteva valicare in armi, e questo poteva assumere diversi significati : dimostrare la potenza di Roma fissando sin dal principio un “muro” (inteso come confine) che non doveva in alcun modo essere superato o distrutto dai nemici; stabilire un confine tra il luogo “sacro” e civilizzato, quale era la città, e la natura, simbolo di barbarie, di vita scapestrata e selvaggia; garantire un mantenimento (più formale che sostanziale) della sacralità e del valore della religione a Roma, nel senso che, posando le armi prima di entrare in città (le truppe si radunavano infatti nel noto Campo Marzio), ci si ritrovava “spogli” davanti alla potenza degli dèi, che erano come dei capi (e fondatori di una nuova realtà) dal potere assoluto.

E fin qui ci siamo : per circa 300 anni il pomerium non viene toccato da nessuno.  Forse nel 508/504 a.C., come ci testimonia il greco Strabone, Geografia, V, 2,2, Roma fu saccheggiata ad opera di Lars Porsenna, un etrusco di Chiusi, ma si tende a dare più credibilità ai racconti (Polibio, Livio, Plutarco e lo stesso Strabone) che narrano del 390 a.C., considerato come il primo Sacco di Roma ad opera dei Galli Senoni capeggiati da Brenno : in quell’occasione a dir poco vergognosa (i romani li rimandarono via, vendendo la propria dignità a suon di denari), i Galli, dopo aver sconfitto i romani il 18 luglio presso il fiume Allia, invasero l’Urbe entrando nella sala in cui si riuniva il Senato (così narra Livio nel libro V, Ab Urbe Condita) e videro i senatori seduti tranquillamente sui propri scranni; ovviamente non esitarono più di tanto a compiere le loro razzie e uccisero gran parte dei senatori e incendiarono gli archivi di stato.

Un altro sacrilegio si verificò nella storia di Roma il console (comandante e poi futuro dictator “illegittimo”) romano Lucio Cornelio Silla, nell’88 a.C. marciò su Roma per occuparla militarmente : lo scopo era quello di annullare tutti i poteri del rivale Gaio Mario (ex console per 5 anni e validissimo generale), che, come lo stesso Silla, pretendeva di guidare la spedizione in Asia contro il re del Ponto Mitridate VI (come si sa, buona parte del bottino di guerra andava nelle casse del comandante, come la gloria, il consenso e la fiducia dell’opinione pubblica). In realtà la questione mitridatica doveva essere affidata a Silla, perché, insieme a Quinto Rufo era console quell’anno, ma l’assemblea della plebe la affidò a Gaio Mario. Vista la situazione, Silla intraprese il cammino, con le legioni, varcando il pomerium. Fu solo una dimostrazione di potere e un’intimidazione ai mariani (sostenitori di Mario), ma il caro Silla non avrebbe avuto sicuramente paura di andare oltre ed utilizzare la violenza (fu lui che mise in atto le liste di proscrizione, elenchi di uomini “ricercati” da uccidere), anche perché già nell’82 a.C. si fece nominare dittatore a tempo indeterminato. Curioso e controverso il ritiro a vita privata, nel 79 a.C., dopo aver perso così tanto tempo a conquistare il potere e dopo aver causato migliaia di morti tra guerre civili e proscrizioni.

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Ultimo episodio (di questa prima parte) è quello che ha fatto nascere questa riflessione : il passaggio del Rubicone da parte di Cesare. Come abbiamo già detto, Caio Giulio Cesare, proconsole in Gallia, dopo aver conquistato diversi territori extraitalici, a nord della Gallia, l’11 gennaio del 49 a.C., sulla via del ritorno per Roma, si trovò davanti il fiume Rubicone : il flumen, che oggi si trova a Savignano, nella provincia di Forlì-Cesena, largo 30km, segnava il confine, o meglio, il pomerium romano. Da lì si entrava nella “città” di Roma. Forse un po’ pensò sul da farsi, ma alla fine decise di passare il confine, insieme alla fedelissima legione che lo aveva accompagnato nelle campagne galliche.

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“Alea iacta est(o)” : il dado  è tratto (il dado sia tratto). O meglio, “Preparate le armi : oggi si scende a Roma”. Sacrilegio, eresia. Ma Cesare aveva i suoi motivi : nel 50 a.C. era stato richiamato  a Roma dal senato, con l’ordine di sciogliere l’esercito e tornare da solo a Roma. Intanto a Roma era scoppiato il caos, perché nel 53 era morto il triumviro Crasso (nella battaglia di Carre contro i Parti, dove perse le insegne imperiali) e lo scontro si faceva vivo tra optimates e populares : i primi, più conservatori, erano guidati e rappresentati da Gneo Pompeo Magno, mentre i secondi, più “progressisti” e attenti alle richieste delle fasce più deboli della società, erano guidati da Cesare. Lo stesso Cesare non era poi così ben visto a Roma, perché molti pompeiani lo odiavano, e Pompeo aveva alle spalle diversi anni di consolato (tra cui anche uno da “consul sine collega” – console senza collega, perché i consoli erano sempre 2 – straordinario) oltre che gloria, successo militare e ampio consenso. Ma Cesare, uomo di grande capacità e intelligenza tattica, con non poco coraggio e determinazione, passò quel fiume, in quel giorno che, in un modo o in un altro, cambiò la storia.