L’uomo che temeva lo specchio

Kafka aveva paura del suo corpo.
Bisogna immaginarselo, un uomo,
alto, magro, gli occhi scuri,
quegli occhi così scuri.

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Immaginarselo in un bagno, davanti a uno specchio – immagine terribilmente moderna –
che odia lo spazio, lo spazio che lui col suo corpo occupa.
Un adolescente di molti più anni, si potrebbe dire.

Franz Kafka, “quello dello scarafaggio”, per intenderci, aveva paura del sesso.
Detto così, senza giri di parole, senza sinonimi o altro.
Temeva la sessualità, e la sua vita si divideva tra l’arte letteraria (“Sono fatto di letteratura. Non sono e non posso altro”) e timori.
Il timore di non saper stare al mondo, quell’incapacità dell’ edonè greco, per così dire, quell’incapacità di approcciarsi a se.
Il sesso, poi, lo temeva da impazzire.
Si sentiva sporco, sporco dentro.
E non tanto per, come sussurra alla carta ne “I Diari” e “Le lettere”, per esperienze concrete e reali, ma piuttosto per fantasie, possibilità sessuali immaginate.

“Sporco io sono, Milena, sporco senza fine.”

La temeva, e, come tutte le cose temute, la sfiorava, la carezzava come un’utopia una notte, per poi trasformarla in fugace realtà quella dopo.
La rincorreva, la scacciava, la venerava, l’odiava.
Forse per questo non si sposò mai.
A che pro aver nel talamo colei che di Venere porta gli amorosi frutti?
Il temibile temuto nel talamo, perché mai?

https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/4/45/Franz_Kafka_from_National_Library_Israel.jpg
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Torturato dal desiderio sessuale, “un incessante donnaiolo” secondo il biografo Reiner Stach, tuttavia domato da una forte paura, anche per quella del fallimento sessuale.
Come tutti i soggetti in presa a crisi interiori, non riusciva a darsi tregua.
Un tira e molla pazzesco.
Avrebbe potuto andare avanti per sempre.
Evitava il sesso.
E poi i bordelli divenivano luogo erotico e piacevole per lo scrittore.
Odiava l’immagine corporale.
Con voracità faceva sua la pornografia.
Non si sposava.
Molteplici gli stretti rapporti con molteplici donne.
L’odio per quel suo corpo magro e così, beh, massa, materia, peso, crebbe in lui fin dall’infanzia, quando il padre, accompagnandolo in piscina o nel bagno rituale ebraico (mikveh) lo costringeva a denudarsi, restando così fragile e impotente, pieno d’odio verso il suo stesso essere.

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Un senso di ripugnanza.
Un senso di ripugnanza per l’amore sessuale (che ritroviamo ad esempio ne “Il castello”).
Quello che da Adso, novizio benedettino de “Il nome della rosa” descrive, tra l’altro a sproposito dato il suo stato, “somma felicità da cui si producono a un tempo l’unità e la soavità e il bene e il bacio e l’amplesso”, Kafka lo bolla come sporco e bestiale, ovvero ciò che alla bestia somiglia l’uomo.
Tale rapporto conflittuale con il sesso, e, soprattutto, con il suo stesso corpo, gli attribuiscono sovente un’anoressia nervosa ed un disturbo ossessivo-compulsivo, con pochi e scarsi pasti, accompagnate spesso a ben poche ore di sonno.
A ciò l’aggiunta di presunta depressione, con ipocondria e tendenze al suicidio.

http://www.rodoni.ch/KAFKA/kafka1.jpg
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Si, Kafka forse non aveva una vita perfetta.
Ma una vita non deve essere perfetta, perché gli amori e gli affetti che potrebbero caratterizzarla vengano a mancare.
E a Kafka nulla di ciò manco.

Non di sicuro a partire dal 13 agosto 1912.
Quando conobbe felicità, sofferenza, ossessione, disgusto, sublimità.
L’amore, insomma.
Felice Bauer, si chiamava.
Lavorava a Berlino come rappresentate di una società di dittafoni.
Non mancano le lettere, come in ogni amore.
Non che Kafka la descrivesse come donna angelicata, a dire il vero.
Dopotutto non è Petrarca, non è Dante, non è Cavalcanti.
“Tanto gentile parìa lei, ogni lingua divien muta, io vorrei esemblare lo giglio, capei d’oro a l’aura sparsi”, avrebbero detto loro.
Ma loro Kafka non lo era proprio, e alla sua amata parlò con fiumi d’inchiostro in tal guisa:

“Signorina FB,
quando sono arrivato da Brod il 13 agosto, era seduta al tavolo.
Non ero affatto curioso di sapere chi fosse, ma piuttosto la guardai per scontato in una sola volta.
Il volto ossuto, vuoto che dimostava apertamente la sua vacuità.
La gola scoperta.
Una camicetta bttata su.
Sembrava molto domestica […]
Il naso quasi rotto, bionda, capelli piuttosto lisci, poco attraente, mento promimente.
Già avevo, la prima volta, un giudizio incrollabile.”

Eppure, naso rotto, nessun’attrazione, mento promimente e aspetto da domestica, di lei si innamorò, iniziando una corrispondenza epistolare ancora oggi parte struggente e dolce della sua intera produzione.
Le lettere, la chiave per quell’oscuro animo, il muro tra lei e lui, tra corpo e corpo, tra lui e la paura materiale, corporale, sessuale.
Vuole sposarla, vuole sistemarsi, per così dire.
Vuole restare libero, vuole che nella sua vita solo la carta abbia l’eterno, immortale, meritato posto.
E così continua, la cosa.
Lei da una parte, e lui dall’altra con la carta.
Lei Musa fedele, lui l’Omero, non si sa se accecato da lei o dalla letteratura.
Fiumi di inchiostro per cinque anni.
Qualche incontro.
Due volte un vano tentativo di provarci, ma provarci sul serio, senza la capacità di portare a termine questo desiderio.
1920.
Julie Wohryzek per Kafka.
Secondo i biografi Stach e James Hawes, una povera e ignorante cameriera d’un albergo.
Eppure, per così dire, Franz parte in quarta.
Affitta l’appartamento e poi “ti sposo amore mio, ti sposo”, e poi la data, e poi a monte tutto.
Non si sa bene la dinamica, solo che scrisse una bozza della “Lettera al padre”, in cui si oppone a Julie per le sue convinzioni sioniste.
Ad ogni modo, il tradimento pre-matrimonio, l’ennesimo a dire il vero, non mancò.
Aveva paura, ci ripetiamo, paura folle, era sporcizia, “quella roba”.
Ma forse chissà, una sporcizia dolcissima, che sovente lo spingeva sovente tra braccia di donne, nonostante la sua scarsa autostima e i mostri che lo logoravano.

Stach e Brod affermano inoltre che, durante la relazione Kafka-Bauer, egli ebbe una relazione con una sua “amica”, Margarethe Bloch, donna ebrea di Berlino.
Che diede alla luce un figlio.
A quanto afferma Brod non potrebbe essere d’altri, se non di Kafka.
Di chi fosse non è dato saperlo, in aggiunta il fatto che Franz di questo presunto discendente non venne mai a conoscenza.
Nacque tra il 1914 e 1915, e morì solo dopo pochi anni a Monaco di Baviera, 1921.
Nel 1920 una seconda relazione, quella con Milena Jesenka, giornalista e traduttrice in ceco di molti suoi racconti.
Spostata e tradita, dopo un amore intenso, passionale, viscerale con Kafka, decise tuttavia di non separarsi.
Quello di Kafka fu un addio dolcissimo.
E’ da immaginare.
Un uomo magro, scavato, gli occhi neri.
Che posa nelle mani che tanto lo avevano accarezzato i Diari e le lettere per lei.
“Sono tue, Milena. Tienile con cura.”

1923. Mar Baltico.
Franz incontra Dora. Ha 25 anni, maestra d’asilo di una famiglia ebrea ortodossa.
Nella speranza di fuggire da tutto per ritornare all’ebrezza dell’inchiostro, Kafka si sposta con lei, Diamant Dora, a Berlino.
Lei, per lui la purezza dell’ebraismo originale, un periodo sereno, la quiete nella tempesta eterna, lo studio del Talmud a cui lei lo aveva indirizzato, il carezzevole sogno di una fuga in Palestina.
Fu il suo ultimo amore,
colei i cui occhi ne videro la morte.
Quel 3 giugno 1924.

“Il mondo enorme che ho nella mia testa.
Ma come liberarmi e liberarlo
Senza mettere
A soqquadro..”

Arianna Mariolini

 

Arianna Mariolini

Mi chiamo Arianna Mariolini (Ary). Sono nata il 6 gennaio 1998 a Clusone, in provicia di Bergamo, ma attualmente risiedo a Pisogne, un bellissimo borgo bresciano. Dal settembre del 2012 frequento il Liceo classico Decio Celeri di Lovere. Le mie principali passioni sono la letteratura e la musica...