Le stelle di Van Gogh

37 ritratti di un pittore che in realtà non c’è.
37 autoritratti di un pittore.
A volte compare senza barba, altre con.
Di solito i capelli rossicci sono piuttosto lunghi e pettinati all’indietro, una predilezione per una giacca blu, le labbra serrate e la fronte lievemente corrugata.
Ma in realtà è un gioco di non esistenze.
Il soggetto, il pittore, mira noi, ma non ci guarda. Ci trapassa con lo sguardo, così da farci dubitare della nostra esistenza, o della sua, pittore che guardando il nulla diventa essenzialmente nulla, e si disperde nel non reale, mentre non guardandoci annulla la nostra presenza.

 

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Negli ultimi autoritratti, la benda sull’orecchio.
E gli stessi occhi azzurri che ci trapassano lo stomaco, una palla di cannone sotto le costole.
Lo sguardo immerso ed immenso di Van Gogh.
L’episodio dell’orecchio è ormai divenuto aneddoto leggendario, e, come tale, dotato di più versioni.
Gauguin raccontò che senza alcun preavviso, durante una serata normale al caffè, Van Gogh gli scagliò addosso un bicchiere pieno di assenzio.
In seguito, Gauguin comunicò al fratello dell’amico, Theo, di voler tornare a Parigi ma si lasciò tuttavia convincere rimanendo in Provenza nella Casa Gialla.
Vincent però, presagendo il “crollo” del suo sogno (il rapporto idilliaco dell’amico e la sua permanenza), e vedendo invece tensione, follia ed amore mescolati in un tutt’uno divenne preda di una crescente tensione.
Finchè una notte, vedendo il sogno andarsene, si mutilò con un rasoio il lobo, metaforicamente simbolo della testa di un feto rannicchiato.
Secondo la versione dell’accaduto raccontata in “Avant et Après”, Vincent avrebbe tentato di attaccare l’amico con un rasoio, rivolgendolo contro se stesso.
Le memorie furono però composte ad “arte” per propagandare un’immagine di Gauguin, certamente più costruita che reale trasmettendone una artefatta ed esagerata degli squilibri di Van Gogh e del suo debito artistico.
In qualunque modo andarono le cose, l’orecchio venne consegnato dal pittore stesso a una prosituta di un bordello
Rachele.

“Non parlar male della nostra povera piccola casa gialla”.
Van Gogh suggellò l’episodio con una preghiera all’amico.
La nostra casa gialla.

Gli piaceva dipingere di tutto.
Soprattutto di giallo.
Vedeva il giallo per via dell’eccessivo assenzio.
Era tutto un mondo di sole.

I paesaggi e le campagne, che risultano a un tempo più intensi e preziosi e più calmi, di quella calma che è propria della certezza al fine raggiunta. Le campagne di Van Gogh, che erano estremamente soggettive, si facevano oggettive, l’anima dell’artista si distaccava dal suo prodotto, si annullava nell’oggetto rendendola un’immagine da adorare.
Comprese che l’arte non deve essere uno strumento, ma un agente della trasformazione della società e dell’esperienza che l’uomo fa del mondo. Nel generale attivismo, l’arte deve inserirsi come lampante scoperta della verità contro la crescente tendenza all’alienazione e alla mistificazione. Non si tratta più di rappresentare il mondo in modo superficiale o profondo: ogni segno di Van Gogh è un gesto con cui affronta la realtà per cogliere e far proprio il suo contenuto essenziale, la vita.

 

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I ritratti:

«Vorrei dipingere ritratti che appaiano dopo un secolo alle persone come apparizioni. E con questo intendo, che non debbano sforzarsi di raggiungere questo obiettivo attraverso la rassomiglianza fotografica, ma grazie ai mezzi delle nostre appassionate emozioni, che vale a dire utilizzando le nostre conoscenze e il nostro gusto moderno per il colore come mezzo per arrivare alla espressione e l’intensificazione del personaggio, dipingere degli uomini e delle donne con un non so che di eterno […] mediante la vibrazione dei nostri colori […] il ritratto con dentro il pensiero, l’anima del modello […] esprimere l’amore di due innamorati con il matrimonio di due colori complementari, la loro mescolanza e i loro contrasti, le vibrazioni misteriose dei loro contrasti […] esprimere la speranza con qualche stella. L’ardore di un essere con un’irradiazione di sole calante […] non è forse una cosa che esiste realmente? »

 

I cipressi, che paiono fiamme verdi e fredde, scagliate contro il cielo notturno, il cielo nuvoloso, la luna, stelle che paiono fuochi fatui, il vento che senti ululare dolcemente, se guardi bene.
E sotto sempre la campagna, che pare di acqua e fuoco, tutto, tutto davvero, fuorché semplici spighe.

Mille fiori dipinti con la solita tecnica vigorosa, esaltata, brutale, intensa, le segrete caratteristiche delle linee e delle forme, ma più ancora dei colori, le sfumature invisibili alle menti patetiche, le magiche irradiazioni delle ombre. La necessità di rivestire le sue idee di forme precise, consistenti, tangibili, di involucri materiali e carnali. In tutti i suoi quadri, sotto questo involucro fisico, sotto questa carne trasparente, sotto questa materia così materia, è nascosta, per gli spiriti che la sanno cogliere, un senso di sottile e velato sublime.
Esplosivo.
La scelta dei soggetti, la continua ricerca del segno essenziale per ogni cosa, mille significativi particolari testimoniano irrefutabilmente la sua profonda e quasi infantile sincerità, il suo grande amore per la natura e per la verità, per la sua verità. Nella sua categorica affermazione della caratteristica delle cose, nella sua sovente temeraria semplificazione delle forme, nella sua insolenza nel guardare il sole in faccia, nella foga del suo disegno e del suo colore, fino ai più piccoli particolari della sua tecnica, si rivela una personalità potente, maschia, audace, molto brutale ma a volte ingenuamente delicata.

 

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Una brutale ingenuità in quella notte stellata, forse il suo più bel dipinto, le stelle che sono scintille di quel gran vulcano del cipresso, uno spettacolo ce si ridesta nell’ora del sonno per tutti, invisibile di giorno, invisibile agli occhi di tutti, la luna gialla che sovrasta la campagna, nessuno lo vede, nessuno, ma può catturarti sai, se solo guardi il vento e i suoi vortici, se solo lo guardi un momento…
Guardi quel che sogni, per poi sognare quel che guardi.
Così come Van Gogh.
Prima sognava i suoi dipinti.
Poi dipingeva i suoi sogni.

Nessuno sa dove Vincent van Gogh abbia trovato, la sera del 27 luglio 1890, la pistola con la quale scelse di togliersi la vita. Quella domenica, dopo essere uscito come al solito per dipingere nelle campagne della “caratteristica e pittoresca” Auvers-sur-Oise, gravemente ferito salì le scale della pensione di Ravoux in cui alloggiava e si rifugiò subito nella sua camera. Ravoux, non vedendolo a pranzo, salì.
Lo trovo disteso e sanguinante, e solo dopo varie insistenze confessò di essersi sparato un colpo di rivoltella in pieno petto in un vicino campo.
Uno dei suoi campi, quello che amava dipingere.
Al dottor Gachet, che dopo avergli fasciato il petto gli promise il possibile per salvarlo, Van Gogh, beffardo sorrise.
“Volevo uccidermi, ma ho fatto cilecca. Nel caso dovessi sopravvivere ci riproverò.”

Sebbene fosse ormai in fin di vita, Vincent che detestava l’idea di allarmare la famiglia, rifiutò di rivelare l’indirizzo dell’amato fratello Theo, accorso solo la mattina dopo. Nonostante tutto riuscirono a trascorrere l’intero 28 luglio insieme, uno sdraiato pacificamente a letto a fumare la pipa, per niente pentito del gesto compiuto, e l’altro costantemente al suo fianco.
Poco dopo ebbe un accesso di soffocamento, poi perse conoscenza e morì quella notte stessa, verso l’1:30 del 29 luglio.
Più tardi, Theo trovò una lettera destinata a lui e mai spedita, da parte del fratello maggiore.

“Ebbene nel mio lavoro ci rischio la vita e la mia ragione si è consumata per metà – e va bene – ma tu non sei fra i mercanti di uomini, per quanto ne sappia, e puoi prendere la tua decisione, mi sembra, comportandoti realmente con umanità. Ma che cosa vuoi mai?”

 

http://www.fotoartearchitettura.it/images/stories/img_arte/van_gogh/Foto-Vincent-Van-Gogh.jpg
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Poche parole, le ultime, prima di diventare un fuoco fatuo nella sua notte stellata.
La consapevolezza della maledizione dell’artista, destinato a sentire il doppio, ad amare troppo, a sbagliare in maniera irrimediabile..
A vedere oltre, oltre tutto, oltre i colori, oltre le campagna, destinato a succhiare davvero fino in fondo il midollo della vita, con le gioie ma anche i dolori che trascinano al fondo malinconico, spaventevole e buio e tuttavia dolce.
Le vedi, le stelle, dal fondo?
Non le vedi forse meglio?
“La mia tristezza non avrà mai fine..
Ora.. Ora vorrei tornare.”

 

 

Arianna Mariolini

 

Arianna Mariolini

Mi chiamo Arianna Mariolini (Ary). Sono nata il 6 gennaio 1998 a Clusone, in provicia di Bergamo, ma attualmente risiedo a Pisogne, un bellissimo borgo bresciano. Dal settembre del 2012 frequento il Liceo classico Decio Celeri di Lovere. Le mie principali passioni sono la letteratura e la musica...