In ogni cosa te

Mi piacciono poche cose della vita, ma quelle che mi piacciono sono giuste.

Mi piace,
la certezza della tua schiena la mattina, bianca e stagliata contro la parete.
Mi piace e secondo me dovrebbe starci, al Louvre. Non lo dico tanto perchè è una frase carina da dire, ma se fossi un’artista, la tua schiena la dipingerei, o forse anche solo una fotografia, una bella però, che le renda giustizia.
Mi piacerebbe vedercela là, perchè se fossi una ragazza a caso che un giorno decide di visitare il museo, non ci impiegherei giorni per girarmelo tutto, ma forse anni, anni sì, e alla fine avrei comunque visto una sola cosa.
La tua schiena là, e anche io là, ferma immobile a fissarla, meraviglia su tela, perdersi nello spazio temporale per un frammento di infinito inceppato e immortalato su parete.
Così, perchè mi piace la tua schiena.
Mi piace,
le sagre del paese, quelle dove gira il vino e la birra, che io magari nemmeno bevo troppo, ma mi piace la certezza delle sensazioni alterate e confuse. Le canzoni italiane vecchie cantate, o anche il karaoke, gli anziani che ballano il liscio, la notte e le lucciole, quando ci sono.
Mi piace andarci con una compagnia, e star lì ad ascoltare, perché io ascolto sempre, mentre parlano di tutto e di niente, e se bevo parlo anche io, un parlare che non è un parlare per dire “ho fatto questo, ho fatto quello, ho mangiato e bevuto”, ma per farsi un’idea, per capire come va questo mondo.
Forse le sagre mi piacciono perché posso unire la musica, le stelle e il vino.
E la parola.
Mi piace,
l’alba. Attraversarla e vedere se riesco a uscirne, e come ne esco.
Tagliarla di mattina sfrecciando 90 all’ora anche se non potrei.
In effetti, tutto quello che mi piace non potrei.
Correrci e vedere il freddo che fa, il rosso stagliato all’orizzonte, la visiera del casco che “devo pulirla” e poi rimane sempre un po’ opaca e piena di ditate, perchè a ricordarmi le cose non sono brava. Eccetto te, con la cura, con la pazienza, con allarmante e tuttavia queita meticolosità.
Mi piace
i libri, la carta che taglia come rasoio, sempre in bilico su una parola nera, là, sempre, a ricordarti che esisti ma soprattutto vai delineandoti solo grazie a quella, sfumatura opaca di un concetto astratto ben troppo grande da definire.
Quella capacità di sentirmi sola in mezzo alla folla, anche se non potrei.
In effetti, tutto quello che mi piace non potrei.
Dovrei essere più attenta, vigile, con reazioni istantanee e un sorriso che manca per timidezza. Invece i libri ti stagliano e ti tagliano uno spazio per te, e sei solo, quella solitudine perfetta e melanconica che non provi, ma che indossi direttamente.
Mi piace il libro perché sono fatta di carta.
Mi piace l’Ikea, ed è stupido tanto.
Quell’idea fasulla di casa, quell’apparenza idilliaca e finta che però ti piace.
Sai che è finto, ogni cosa lì dentro, ma è un finto perfetto di cui vorresti far parte, tu che sei imperfetto, ma non puoi mai.
Perché è bello… No, bello no, ma è consolante, ecco, questo si, consola pensare che se fossi un po’ diverso finiresti al perfetto macello dell’ordinario, stereotipato ma tuttavia vagamente felice, sereno nella consapevolezza di aver adempito al tuo dovere vitale, alla sublimazione della perfezione.
Invece non puoi essere così.
Voglio dire, è tutto un insieme di cose che ti sconcerta, fin dall’inizio, una macchina che ti lavora ai fianchi e ti predispone, per così dire, a qualcosa di speciale.
C’è tutta la gente che ci passa intorno, chiacchierando, e tutto quel rumore, ma io non sento più niente, come se tutto poco a poco si spegnesse, nella mia testa.
E’ difficile da spiegare, ma tu cammini lì in mezzo e senti una cosa molto strana nella testa, come una sorta di meraviglia dolorosa.
Ti senti una specie di consolazione, dentro, quasi una rivelazione, che ti spalanca l’anima, per così dire, ma contemporaneamente senti una specie di fitta, come la sensazione di una perdita e definitiva.
Una dolce catastrofe. Credo che c’entri il fatto di essere sempre fuori, in quei momenti lì, sei sempre lì che guardi fuori. E’ una cosa strana. Quando ti accade di vedere il posto dove saresti salvo, sei sempre lì che lo guardi da fuori. Non ci sei mai dentro. E’ il tuo posto, ma tu non ci sei.
Mi piace
la pioggia, perché divento Ermione.
Il bosco, la notte.
Uscire a riveder le stelle d’inverno, avvolta in una coperta.
Le città d’arte e le case dei grandi
anche se dovresti ammirare solo i loro scritti per non cadere in una sorta di banale idolatria.
Tuttavia non ho potuto non sentirmi immersa in un mondo a sè, al Vittoriale, e avrei voluto che D’Annunzio fosse ancora vivo, o essere io D’Annunzio, essere in quegli anni, in quel posto, a scrivere.
Ho divorato la banale idolatria, e va bene così.
Anche se non si dovrebbe.
In effetti tutto quello che non dovrei mi piace.
Mi piace la gente che si fa i cazzi suoi.
No, non dovrei dirlo, perché non sta bene, non si deve, ma mi piace tutto quello che non si deve e quindi mi piace la gente che si fa i cazzi suoi, e quella piena di meraviglia, quella che vive di arte e che sa meravigliarsi.
Mi piace la gente che fa il bambino affamato di bellezza.
Sempre in cerca, sempre pronti per quello che è la vita, unici e pochi attimi di bellezza in un perpetuo silenzio assordante, che gronda, colosso mare, che annega pure te, giorno dopo giorno.
Mi piace poi mio padre quando gli brillano gli occhi, e non capita spesso, e allora sembra un po’ un bambino, e mi piace questo suo lato.
Ma quanto accade, è bello, a modo suo.
Di solito è quando mi parla di storia, e allora io gli parlo della letteratura, e si va a creare un piccolo salotto culturale in cucina, e mia mamma storce il naso, perchè teme che appassionarmi alle arti sia un modo per rendermi troppo diversa, per tagliarmi fuori.
E poi non è che queste siano il suo genere di cose, ecco.
Però è bello.
Papà mi racconta dei pazienti famosi ricoverati, del lungotenente di D’Annunzio, Damì, e allora brillano gli occhi un po’ anche a me.

“Quando ebbe un figlio Damì lo chiamò Gabriele. E mi ha fatto vedere la foto di D’Annunzio e del figlio.
Mi ha detto che è stato a Fiume con lui, e di tutte le donne che ha avuto. Tante, belle, un vai e vieni che non finiva più. L’ultima fu una pittrice, l’unica che lo mandò davvero al diavolo, vedendoselo piombare in camera ormai vecchio e nudo come un verme, che cercava di possederla. Ah, e la roba delle costole, è tutto vero.”
E poi c’era “quello del 20”, il suo preferito.
Era un signore un po’ malinconico, ma che si infervoriva appena mio padre gli chiedeva di parlargli della guerra.
Gli è sempre piaciuta, a mio padre, la guerra.
E non per i massacri, le armi e il sangue, ma per gli strateghi, per quello che si nasconde nelle loro menti, tutte le mosse.
Come se fosse una partita a scacchi.
E allora, dicevo, s’infervoriva e diceva che la guerra l’aveva fatta sì, che c’era stato a vedere Hitler, e pure Goebbels e la moglie, così bella, con quei capelli biondi biondi, che donna..
E poi aveva dato fuori di matto, e li aveva visti, diceva tra il fiero e il disgustato, li aveva visti i cadaveri dei figli, là, esposti come carogne.
Mi piace poco parlare, ma quando si parla di letteratura non posso non tacere, e ascolto più che alle sagre.
Mi piace questa vita, dopotutto.
E molte altre cose.
Sarà perchè in tutto ci vedo te.
Non è colpa mia, sei tu, tu che combaci e sei compatibile con tutto.
Con il privato, con il pubblico, la politica, l’etica, l’estetica, la musica, i libri, il giornale, la mia letteratura, il cinema, l’informazione, il teatro, la tecnologia, persino la pubblicità delle macchine.
Ogni cosa è compromessa con te.
E io sono obbligata a parlare di tutto e interessarmi avida a tutto, perchè tutto ti riguarda.
Sei ovunque, tranne dove vorrei che fossi.
Indovina dove.

 

Arianna Mariolini

 

Arianna Mariolini

Mi chiamo Arianna Mariolini (Ary). Sono nata il 6 gennaio 1998 a Clusone, in provicia di Bergamo, ma attualmente risiedo a Pisogne, un bellissimo borgo bresciano. Dal settembre del 2012 frequento il Liceo classico Decio Celeri di Lovere. Le mie principali passioni sono la letteratura e la musica...