Dorando Pietri : “Il sogno del maratoneta”

A cura di Arianna Mariolini

Ho sempre cercato, nei miei articoli, di cogliere il particolare.
Perché ha una sua bellezza, un suo valore.
Una dignità, per così dire, ecco, una sorta di decorosa dignità.
Quel particolare a cui non si presta attenzione, quello che nessuno conosce, e allora diventa in un certo senso prezioso.
Avete presente i quadri di George Seraut? Bellissimi, tutti dipinti con pennellate veloci e appena accennate, come se fossero punti dai colori più vari, informi.
Bellissimi.

Questa volta ho deciso di fare qualche passo indietro e guardare l’opera in sé, e vedere che colore ne esce fuori da quel formicolare di punti, e che forma hanno, cos’è, e com’è.
Questo, metaforicamente parlando, per dire che non tratterò di un aspetto sconosciuto, poco noto e tuttavia bellissimo come faccio di solito, ma prenderò la vicenda per quella che è, magari un po’ giocando con le parole, e con i pensieri, e i colori.
Perché a volte le cose sono belle e basta, e non c’è niente da dire.

A me lo sport non fa impazzire. Mi piace correre, ma non sono buona. Devono essere ‘ste gambe. Il mio professore di ginnastica me lo diceva sempre, che “sei un tronco Mariolini, busto troppo corto e gambe troppo lunghe”. Forse non quel che si potrebbe definire un canone di Policleto. E dunque, devono essere le gambe. Ho resistenza da vendere, ma con le falcate troppo lunghe non vado da nessuna parte.
Però mi piacciono certe cose che lo sport comunica, o che mi capita di recepire.

Per dire, Dorando Pietri.

Mi capitò di vedere un film, una volta.
C’era questo corridore, Dorando Pietri, e c’era di mezzo un po’ d’amore, passione, roba torbida e sporca, e necessaria a modo suo.
E quando non amava, amava e correva.
Aveva iniziato da ragazzino. Era piccolo (1,59 metri) e magro (60 kg), ed era così agile che quando passava, a stento lo si vedeva.
E la gente lo guardava, e se ascoltavi la sentivi, mormorare
“Quant’è veloce il figlio di Desiderio! Piccolo com’è, quant’è veloce!”

Era così ambizioso, diceva la gente di Mandrio, che una volta, nel settembre del 1904, durante una gara proprio lì, a Carpi, lui, che di gare mai ne aveva viste o fatte, lui, vestito ancora con gli abiti da lavoro, si era messo a correre dietro al più famoso podista italiano dell’epoca, Pericle Pagliani, e aveva retto il suo passo fino all’arrivo. Qualche giorno dopo, Pietri fece l’esordio in una competizione ufficiale, e la carriera ebbe ufficialmente inizio.

Forse sarebbe stato solo un nome e basta.
Succede. Uno è bravo, vince nei 30 km di Parigi con un distacco di 6 minuti dal secondo, la maratona di qualificazione per i Giochi olimpici intermedi con il tempo di 2 ore e 48 minuti, i 5000 metri ai Campionati italiani (con il primato nazionale di 16’27″2) e dei 20 km. Ormai Dorando Pietri era il dominatore assoluto del fondo nazionale, in grado di vincere dal mezzofondo alla maratona, ed aveva già ottenuto risultati importanti sulla scena internazionale.
Ma forse sarebbe stato solo un nome e basta. Succede.
Puoi essere un grande nel presente e vedere il tuo nome eclissarsi nel dopo.
O viceversa.

Ma per una serie di curiosi eventi, non fu un nome e basta.
Fu, ed è, il più grande «perdente di successo».

La cosa accadde nel 1908. Olimpiadi di Londra.

Dorando Pietri si era preparato per mesi all’evento tra gare, allenamenti, corse in bici, camminando, correndo,
amando e correndo.
La maratona olimpica era in programma il 24 luglio, con un percorso snodato su 42,195 km. Alla partenza, davanti al Castello di Windsor, c’erano 56 atleti, tra cui due italiani: Dorando Pietri, maglietta bianca e calzoncini rossi, i capelli neri tenuti sotto ad un fazzoletto legato a destra e sinistra, un bel sorriso, che sa che è sulla sua strada.
Con il numero 19 sul petto.
E Umberto Blasi.
Era una giornata insolitamente calda per il clima inglese. Troppo calda, si rivelerà più tardi.

 

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Pietri si mantenne nelle retrovie, tecnica per conservare le energie in modo da utilizzarle nella seconda parte della gara, quella decisiva. Verso metà percorso Dorando avviò difatti la sua progressione, rimontando via via numerose posizioni. Al 32º km era secondo, a quattro minuti dal leader della corsa, il sudafricano Charles Hefferon. Saputo che l’atleta di testa era entrato in crisi, Pietri aumentò ancora il ritmo per recuperare il distacco, e al 39º km raggiunse e subito sorpassò il sudafricano.

Ma ad un chilometro dal traguardo, quando è riuscito a guadagnare un distacco incolmabile, la crisi.
Rallenta Pietri,
la sua falcata meno fluida,
l’afa inglese come sfondo.
Gli ultimi 500 metri vengono percorsi quasi camminando, fino al drammatico ingresso allo stadio.

Pietri ha ormai consumato la sua ultima stilla di energia, sbaglia senso di marcia, viene fatto ritornare sui suoi passi. Poi inizia a barcollare, ma non molla, non ci pensa nemmeno un secondo.
“E’ lì il traguardo”, sussurrano le gambe, “Donato Pietri”, urlano i tifosi italiani.
Pochi metri, e la vittoria.
Chissà come sarebbe andata, allora.

A 200 metri la prima caduta. I giudici di gara, cronometri, medici, accorrono e lo aiutano a rialzarsi. Pochi passi e cade ancora, e ancora viene sostenuto. E ancora altre tre volte. Ma si rialza sempre, con quel caldo inglese, con quei calzini rossi e il 19 appuntato, quel fazzoletto prima asciutto e ora lì, sulla testa, colmo di sudore.
Puntini neri forse, puntini neri dappertutto.
Come quei quadri, quei quadri di Seraut.
Arriva al traguardo sorretto da una piccola folla, tra cui Coyle, il padre di Holmes.
Taglia il filo di lana e sviene.
Immediatamente.
Non si rialza più, più non gli preme. E’ riuscito, ce l’ha fatta, e nulla ha più importanza.
Non si rialza più, non gli serve.
È portato via in barella.
Pochi istanti dopo arriva lo statunitense Johnny Hayes.

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La squadra americana presenta immediatamente un reclamo per i soccorsi prestati a Pietri, il maratoneta che tagliò il filo sostenuto da un gruppo di uomini troppo caritatevoli. Il carpigiano fu squalificato e cancellato dall’ordine di arrivo della gara.
E’ finita.
Non si rialza, non gli preme, non è mai servito in realtà.

Ma quella sua tragica marcia da ubriaco commuove l’opinione pubblica.
Chissà come sarebbe andata, se solo avesse vinto.
E non vinse, dunque, e fu questa la sua vittoria più grande.

Il suo nome, il suo nome da italiano che perse vincendo, iniziò a passare di bocca in bocca.
Arriva persino alla bocca della Regina Alessandra, che decide di incontrare quel resiliente maratoneta. Schiaffeggia gli Americani, e gli consegna una coppa d’argento dorato simile a quella destinata al vincitore della maratona. Forse un poco più bella. O, comunque, se vi pare poco, consegnata dalla Regina.

 

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Conan Doyle poi lancia una sottoscrizione, a cui partecipa con 5 sterline, per aiutarlo ad aprire una panetteria a Carpi. Pietri diventa una celebrità mondiale, gli vengono offerti lauti ingaggi per partecipare a tutte le principali maratone internazionali e inizia a guadagnare molto di più di quello che una vittoria Olimpionica gli avrebbe fruito. Lo stesso anno parte per una tournée americana e il 25 novembre 20mila persone – ma 10mila rimangono fuori essendo esauriti i posti – assistono al Madison Square Garden di New York, alla rivincita con Hayes. Ma, soprattutto, per rivedere quello spettacolo di Pietri. Per scoprire che fine farà, l’asso, nel rialzarsi.
E vince Pietri che poi batte nuovamente il campione olimpico il 15 marzo 1909. Nei due anni successivi continua a gareggiare in ogni angolo del mondo da Buenos Aires in Argentina a Göteborg in Svezia. Nel 1911 si ritira dall’attività agonistica con una piccola fortuna: 200mila lire in soli premi, più le 5mile mensili, pari ad altri 200mila, garantitegli dal suo agente. Rileva un albergo a Carpi nell’edificio che ora ospita la filiale Unicredit e dov’è ancora custodita la famosa coppa donatagli dalla regina inglese. L’impresa fallisce e Pietri si trasferisce a Sanremo dove apre un’autorimessa e dove muore il 7 febbraio 1942, stroncato da un improvviso infarto. Ma ormai è nella leggenda. Più di Spiridon Louis, il greco che vinse la prima maratona alle Olimpiadi di Atene del 1896 o di Abebe Bikila, l’atleta scalzo di Roma 1960. Gli altri poi non se li ricorda più nessuno.

Poteva rimanere nome, è diventato leggenda.
Chissà, se avesse vinto.

Arianna Mariolini

Mi chiamo Arianna Mariolini (Ary). Sono nata il 6 gennaio 1998 a Clusone, in provicia di Bergamo, ma attualmente risiedo a Pisogne, un bellissimo borgo bresciano. Dal settembre del 2012 frequento il Liceo classico Decio Celeri di Lovere. Le mie principali passioni sono la letteratura e la musica...