Classici per non morire


Avevo 14 anni e fame.

Fame di bellezza, di libri, di parole.
Morivo per la letteratura.

Avevo 14 anni quando attraversai per la prima volta quel corridoio.

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Il corridoio, quello che ora sfreccia davanti ai miei occhi ogni mattina, fino all’ultima aula in fondo a sinistra, luogo bucolico e idillico in cui vedi le cose belle che porta’l ciel, per un pertugio tondo, e nel contempo, in certe mattine, l’ingresso all’Inferno, città dolente, ove si va per l’eterno dolore, tra la perduta gente.

Avevo 14 anni quando attraversai per la prima volta quel corridoio.

Le pareti color brodo, la diffidenza nel credere che quell’edificio pronto a cedere potesse davvero insegnare la bellezza dell’armonia e l’equilibrio.

Poi fu un attimo, in quella prima volta.

Una porta aperta, un’aula.
Su un tavolo era posato un busto di Dante Alighieri, mio fido compagno cartaceo da anni, insieme a Manzoni, il mio Leopardi, Foscolo.

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Bianco, levigato, il naso aquilino.

Rimasi incantata a fissarlo, e lì ebbi la conferma di un’idea che andava districandosi in me da tempo: capii che nonostante sarebbe stata una selva oscura, avrei cercato la bellezza in quel luogo.

In quel luogo che mi precludeva nei libri, con dolcezza, senza ferire, senza far male, cullandomi per poi uscir a riveder le stelle.
Liceo classico.

A costo che le mie vene ed i polsi tremassero.

“Internatevi entro le cose che muovono gli uomini in questa valle di lacrime. Deponete per sempre quel volto tetro; alzate quella testa incurvata; aprite quella bocca tenacamente chiusa tutte le volte che state in compagnia dei vostri, o che in compagnia di altri non si parla di letteratura.”

Zio Carlo Antici al Conte Giacomo Leopardi, primogenito della sorella Adelaide, 1818.

Frase ripetuta spesso da mia madre (in uno stile forse meno aulico).

Chiudi quei libri, e abbi il coraggio di vivere, vivere davvero, ove non carta, non inchiostro, ma carne, ma sangue.

Eppure i libri (e dunque la letteratura) ancora oggi, nonostante sia quasi giunta al termine dell’adolescenza e abbia dunque raccolto qualche esperienza che, come si suol dire “fa le ossa”, risultano ancora esser l’unico modo per vivere senza ferirmi.

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E il Liceo Classico è stato un viaggio. Una novella Ulisse senza fretta di tornare a un’Itaca, ma innamorata piuttosto della perdizione, un Ulisse dantesco, sempre in cerca di avventure fantastiche e pericolose, non fatta per viver come bruti, “ma per seguir virtute e canoscenza”. E poi il secondo anno, ad osservare quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, col fiato sospeso come il pover Don Abbondio alla sentenza “questo matrimonio non s’ha da fare!”. La meraviglia di Renzo d’innanzi a quella gran macchina del duomo, la dolcezza di Lucia, che “non sono andata a cercare i guai: son loro che son venuti a cercar me.” La bellezza (parola chiave della classicità) del terzo anno, Petrarca, Boccaccio, e poi lui, Dante, in cui ritroviamo un fido compagno di perdizione fanciullesca, e allora ci lasciamo prendere per mano per scendere in una selva, e poi giù, nelle profondità infernali, perchè è dalla terra, da distesi, che si vede meglio il cielo, le stelle. Poi salvarsi dallo schifo che ci attanaglia, e una cornice e due e tre, la purificazione, catarsi dell’anima, fino alla salvezza, data dall’Amore. L’amore.. Che muove il Sole e le altre stelle. Che muove noi.

Machiavelli, sempre al terzo anno (una sola C!), e guai a dir “quello del fine che giustifica i mezzi”, orrendo topos letterario estirpato dal suo contesto e usato in maniera errata in ogni dove.

Spogliarsi di “quella vesta cotidiana, piena di fango e di loto” e mettersi “panni reali e curiali, e rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio, e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno di parlare con loro, e domandoli della ragione delle loro actioni, e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non tempo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro”

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La letteratura ha una funzione pragmatica. Come ogni forma artistica ha lo scopo di render sopportabile l’adempimento dei nostri doveri vitali. Sappiamo di essere bestie dotate di un’arma di sopravvivenza e non dèi che modellano il mondo con il loro pensiero, e quindi occore qualcosa che renda questa sagacia tollerabile, qualcosa che ci salvi dalla triste ed eterna febbre del destino biologico.
Allora ci inventiamo l’Arte, un altro procedimento da animali quali siamo, affinchè la nostra specie sopravviva.

Un filo conduttore per ogni tappa di questo incredibile viaggio: bellezza. Solo bellezza. Armonia. Equilibrio. La capacità di saper individuare in ogni dove, anche nelle cose che paiono morte (vedi l’antico greco e il latino) e antiche ciò che non potrebbe essere in realtà più contemporaneo di così, ciò che par bello. Tra i versi, endecasillabi, terzine, prosa, poesia, sculture e declinazioni.
Saper salvare e trasmettere ciò che resiste alla morte, che morte non è.

Individuarlo e prendersene cura. E dargli spazio.

L’Arte. Il modo in cui l’uom s’eterna.

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Fatica, questo si.

Fatica sui libri, sulle carte che divengon allora sudate, “sputare sangue”, si suol dire.

Per cosa?
Per la libertà.
Studiare per essere liberi.

“Fotti il sistema: STUDIA!”
E allora il classico porrà teste chine sui libri, pronte alla libertà che solo la cultura può dare.

Libertà e apprendimento della bellezza.
Queste le finalità, affinchè la vita non sia un semplice vivere, nutrirsi, riprodursi, portare a termine il compito per il quale siamo nati e morire.

Il bello è ciò che cogliamo mentre sta passando. E’ l’effimera configurazione delle cose nel momento in cui ne vedi insieme la bellezza e la morte.

Una cultura però non solo fine a se stessa: importa l’intenzione.
Elevare il pensiero, contribuire all’interesse comune, oppure ingrossare le fila di una scolastica che ha come unico oggetto la perpetrazione di sé, e come unica funzione l’autoriproduzione di sterili élites.

Ho 18 anni e fame.

Fame di bellezza, di libri, di parole.
Muoio per la letteratura.
E per la bellezza della classicità.

 

 

Arianna Mariolini

 

Arianna Mariolini

Mi chiamo Arianna Mariolini (Ary). Sono nata il 6 gennaio 1998 a Clusone, in provicia di Bergamo, ma attualmente risiedo a Pisogne, un bellissimo borgo bresciano. Dal settembre del 2012 frequento il Liceo classico Decio Celeri di Lovere. Le mie principali passioni sono la letteratura e la musica...