Cédric Herrou: un délit de solidarité

a cura di Simone Innico

«Délit de solidarité» è una locuzione che sta a indicare la condizione legale in cui si trovano tutti coloro che, nell’ambito del grande fenomeno migratorio di questo mezzo decennio, intervengono e aiutano i migranti a superare gli ostacoli imposti dalle legislazioni nazionali ed europea. La solidarietà è un reato: ci sono specifici protocolli nel diritto internazionale –siglati nel 2000 nell’ambito della lotta alla criminalità transnazionale organizzata, per reprimere la pratica di passeur e il traffico di essere umani– che producono l’effetto collaterale di rendere illegali alcune azioni di sostegno agli stranieri irregolari. Quali, ad esempio, aiutarli a passare la frontiera tra Italia e Francia.

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Cédric Herrou è un contadino della val Roia –eletto Azuréen de l’année 2016– ed è al centro del grande clamore mediatico suscitato dalla sua citazione in giudizio dal tribunale di Nizza. È processato con l’accusa di avere trasportato oltre la frontiera, a bordo del suo furgoncino,  circa duecento migranti (tra cui molte famiglie con bambini) che da mesi si trovavano ammassati sul confine italo-francese. Dove tentavano, con tutti gli inevitabili pericoli, di scavalcare le alpi.

La legislazione francese nell’ultimo decennio ha via via riformato le normative riguardo l’aiuto agli stranieri irregolari e indurito le sanzioni: anche se si riserva l’immunità per le azioni “necessarie alla salvaguardia della vita o integrità fisica dello straniero”, ancora non include alcun discrimine tra chi interviene per motivi di solidarietà (ed è il caso di Herrou) e chi agisce per “fini lucrativi” (e non è il caso di Herrou). E questo è da dimostrare. Intanto il procuratore Jean-Michel Prêtre ha chiesto otto mesi di carcere da sospendere con la condizionale. A condizione cioè che non si ripeta quel reato che Herrou afferma essere nostro dovere commettere:

Agisco illegalmente per salvaguardare i diritti dei minori. La storia si scrive giorno per giorno, ed è nostro dovere alzarci in piedi quando le cose vanno male. Io non voglio provare vergogna tra vent’anni. Se devo continuare, allora continuerò.

Un groviglio giuridico-morale, insomma.

Ma la dinamica della solidarietà è perfettamente lineare: Cédric Herrou ha una fattoria e un furgoncino, vede una famiglia di migranti che rischia l’osso del collo a scalare le alpi, ci pensa un attimo, poi dice: Et bien, «je me mets dans l’illégalité».

La circostanza non suona del tutto nuova: è facile ricondurla ai classici esempi di inconciliabilità tra norme di diritto e norme morali. Il diritto stabilisce così, ma il senso morale impone un’azione contraria.

Purtroppo, però, dobbiamo pensare ancora un po’ più a fondo. L’epoca di Antigone è finita da un pezzo. Ai suoi tempi avremmo potuto rimandare la questione a un piano ultramondano, farne un caso di diritto umano contro diritto divino, e tirare le somme.

Bei tempi, quelli. Oramai il confronto coi precedenti classici lascia il tempo che trova. Il contraddittorio tra diritto oggettivo e coscienza individuale rinvia a una questione ben più complicata da quando si è abolito il riferimento ultramondano: la bidimensionalità del conflitto, ora, è tutta interna al nostro mondo umano. Non si danno soluzioni di comodo.

Il diritto internazionale è tanto umano quanto il senso di giustizia che muove ad infrangerlo. Non serve invocare alcun diritto divino: si deve protestare contro l’inadeguatezza della legge che ostacola la solidarietà umana. E gli umani siamo sempre e solo noi: siamo i legislatori tanto quanto i disobbedienti.

In quella valle della Roia, la fitta trama della realtà imbroglia il filo del discorso sui migranti –rifugiati e clandestini, e il razzismo e l’irragionevole terrore che dalle primavere arabe ad oggi ottura le bocche di mezza Europa– con il filo di una questione più sottile: la disobbedienza civile.

Evitiamo le grandi citazioni dei pensatori che da H. D. Thoreau a M. K. Gandhi hanno scritto al riguardo. “Disobbedienza civile” è una parola vecchia di centocinquant’anni che indica una cosa semplice e ovvia come l’aria che inspiriamo prima di pronunciarla:

Lo so che la legge è contro di me, contro quello che sto facendo per aiutare le persone in difficoltà, ma allora cambiamo questa legge […] Le leggi devono essere fatte perché la società vada bene e perché la gente possa vivere insieme in armonia.

(Cédric Herrou)

Il nostro agricoltore attivista lo dice ben chiaro: infrangere la legge per cambiare la legge.

Qui sta tutta la differenza. Il reato motivato dall’interesse individuale non ha alcun valore né significato politico. Ma disobbedienza civile non è soltanto un’azione illegale: è un’azione illegale che ha significato di protesta politica. È così che nasce un «délit de solidarité», un reato di solidarietà. Un concetto contro-intuitivo perché definisce quella che è una giusta solidarietà, perseguita pur nella consapevolezza delle giuste conseguenze legali.

https://www.youtube.com/watch?v=FAcytHj2sT8

Ora, come concepire questa bidimensionalità della giustizia? Una giusta azione, umana tanto quanto illegale, e un giusto processo a chi l’ha compiuta?

Da qui in avanti l’argomentazione si muove sul filo di rasoio, facciamo occhio ai termini.

Non si da alcuna contraddizione tra Morale e Diritto, con la “m” e la “d” maiuscole: non esistono leggi ingiuste. Di nessuna legge ha senso dire che è immorale, ovvero ingiusta secondo i criteri di un sistema morale.

Il Diritto è però l’oggettivazione ed esplicazione di questi criteri di giudizio morale. Il principio morale è astratto, non si vede e non si tocca a mani nude – la legge sta scritta su un pezzo di carta. Se questa, così per come è esplicitata, viola un principio eticamente riconosciuto come valido, essa costituisce una legge sbagliata. Ovvero inadeguata, non conforme alla sua propria funzione: sbagliata. Attenzione ai termini, e all’idea che tentano di costruire.

Pensiamo a leggi incostituzionali, leggi ad personam, leggi fascistissime, e tanto altro. Tutte quelle leggi che contravvengono a dei princìpi morali che la storia umana ha lungamente accettato. Di tale fattura è una legge che una coscienza moralmente sensibile potrebbe (dicasi: dovrebbe) rifiutare completamente. Perché è sbagliata.

Il Diritto con la “d” maiuscola è il deposito e sedimentazione dell’evoluzione morale di un popolo. E uno Stato la cui legislazione non rispecchi il Diritto così inteso –bensì solo i comodi ad personam del populista di turno oppure di un preciso intento omicida razziale– è uno Stato senza legge. L’evoluzione morale di quel popolo non ha riscontro sul sistema di norme che governa e giudica le azioni dei cittadini.

“Evoluzione morale” o piuttosto si può dire –per aggirare l’altisonanza del termine– “corrente di pensiero”, come suggerisce al riguardo uno dei nostri padri costituenti:

Che cosa sono le leggi […] se non, esse stesse, correnti di pensiero? Se non fossero questo, non sarebbero che carta morta: se lo lascio andare, questo libro dei codici che ho in mano, cade sul banco come un peso inerte.

(Piero Calamandrei, giurista e azionista, in difesa di Danilo Dolci)

Una legge è scritta. Sta lì a ricordarci ciò che quei vecchi legislatori, al tempo, hanno considerato essere la migliore trascrizione giuridica della loro “corrente di pensiero”.

Certo: “ingiusto”, “sbagliato”, parole, parole… questo discorso è capzioso. Sì, ma ecco qual è il pensiero che segue alla pedante distinzione terminologica: viviamo in un tempo in cui qualsiasi Morale con la “m” maiuscola ha decisamente perso la propria morsa sulla realtà pratica, ed è pertanto poco efficace fare appello a un “diritto superiore” che si vuole prevalere sul semplice “diritto umano”. Se la giurisprudenza europea o francese non ammette la possibilità di prestare soccorso ad altri esseri umani –che chiedono unicamente di poter trovare di che vivere in uno Stato in cui non sia in vigore la legge marziale– serve a poco inneggiare ai “massimi principi morali”. Bisogna, piuttosto, adoperarsi affinché la giurisprudenza europea o francese subisca le dovute modifiche. Ancora: siamo noi i legislatori.

La legge funziona bene se e quando una giusta azione è al contempo anche un’azione legale. A volte questo caso non è dato. Ed è a tal proposito che provvede la disobbedienza civile. È un gesto che ha luogo nell’agire privato, ma sono circa quarant’anni che lo sappiamo: «il privato è politico». La disobbedienza privata è protesta politica.

Ma allora, quale significato corrisponde all’aggettivo “giusto”?

Si è parlato di reato di solidarietà. Per quanto possa suonare strano, non è affatto un termine contraddittorio. È uno pseudo-ossimoro. È giusta la “solidarité”, è giusto il “délit”. Ed è giusto il processo. Se anche solo ci concediamo di sbuffare e scuotere il pugno contro l’ingiustizia della legge, mandiamo a farsi fottere l’intero significato del concetto di “Giustizia”. Cosa faremmo, mio caro Critone, se usciti per strada le incontrassimo lì, le Leggi? Cosa diremmo loro, qualora ci chiedessero perché non abbiamo provato a cambiarle, se tanto ne eravamo insoddisfatti? (Socrate fu uno dei pionieri della disobbedienza civile).

Dove si produce il contrasto tra le due dimensioni della giustizia umana? Di nuovo: nelle singole azioni dei singoli individui, in quanto attori sociali a due dimensioni.

La bipartizione teorica tra “società in quanto sistema” e “società in quanto Lebenswelt (mondo della vita)” –dicotomia che soggiace alla riflessione del filosofo e sociologo Jürgen Habermas in Teoria dell’agire comunicativo (1981)– pone l’accento sulla conflittuale bidimensionalità della realtà sociale: da un lato, il sistema è la società in quanto rigido apparato di potere che si esercita strutturalmente nella burocrazia e nell’economia – dall’altro, il Lebenswelt è la stessa società in quanto riserva culturale sedimentata dalla tradizione, quotidianamente attraversata dalla spontanea insurrezione di nuovi valori che si infrangono contro l’istituzione del sistema. È l’humus, vivo e fertile, che sobbolle sottoterra. Sotto il cemento.

La difesa dell’identità di folklore contro l’avanzata di un’economia globalizzante, le lotte contro la TAV in Val di Susa, l’ambientalismo radicale di Earth First!, l’anonimato femminista delle Pussy Riot in Russia, ecc. ecc.: tutto questo è Lebenswelt che si solleva e rivolta contro il sistema. Non è scontro tra classi di individui, ideali contro ideali. Non sono neanche gli attivisti agricoltori contro i politici bastardi. Sono due prospettive della stessa società. Sistema e Lebenswelt sono rispettivamente sintassi e semantica dello stesso linguaggio. È la società che realizza ciò che è nella natura di ogni società: il cambiamento.

Nella prossima frase si ripete tre volte l’aggettivo “umano”. Nei gesti di un essere umano si oggettiva quella stessa giustizia umana (ad esempio: la solidarietà) che la legge umana dovrebbe permettere, e non ostacolare.

È così che non esiste nessuna giustizia soggettiva: esiste il Diritto, che è un modello ed è pubblico. A Sèvres, vicino a Parigi, è conservata una barra di platino-iridio lunga esattamente un metro: quella barra era la materiale oggettivazione di una convenzione che stabiliva il metro come 1/10.000.000 della distanza fra l’equatore e il polo. Funzionava da pubblico modello di quello che è il riferimento per tutti i metri. Un riferimento per impedire a chiunque di proporre il suo metro soggettivo. Ma anche volendo, con quale metro avremmo dovuto misurare quella barra di platino-iridio? (Sto chiosando L. Wittgenstein, Ricerche Filosofiche, §50)

Lo stesso esatto argomento vale per la nostra questione. Esiste un solo metro inter-soggettivo per misurare la “correttezza formale” delle azioni individuali: il Diritto con la “d” maiuscola. Ma questo funziona fintanto che la collettività si riconosce in esso. La legge non può essere valutata moralmente: di quale altra legge disponiamo? Senza il modello inter-soggettivo, abbiamo solo metri soggettivi: e che vinca il più forte.

Ma la disobbedienza civile non è l’agire individuale e atomico, guidato da una presunta “giustizia soggettiva”. È privata ma è politica, ed è pertanto anch’essa un modello pubblico. La protesta deve avere contagio.

Il punto è: infrangere la legge, traumatizzare la sensibilità morale, condurla alla situazione ossimorica di un délit de solidarité, e quindi smuovere l’opinione pubblica. Affinché quella legge sia modificata. Disobbedienza civile è un gesto, le sue conseguenze giuridiche hanno significato solo in quanto prendono a schiaffi la consapevolezza politica.

Il processo giudiziario infatti, nella pratica della disobbedienza civile, non è un ingiustizia: è un’occasione. «È qualcosa tra la paura e l’eccitazione. Potrò finalmente spiegare perché mi sono assunto tanta responsabilità» (Cédric Herrou, su liberation.fr).

Tra leggi e proteste, più di tutti è nel giusto colui che, come Cédric Herrou, conosce il diritto internazionale e lo infrange per solidarietà. Per disobbedienza a una legge che ostacola la solidarietà. È un invito all’umanità. Renè Daon, anch’egli sotto processo per lo stesso délit de solidarité, dice proprio così:

Quello che voglio dirvi è che io sono un agricoltore, ho lasciato la scuola a sedici anni, ma qui si tratta di una questione di umanità e impegno, chiunque di noi può recepire questo invito all’umanità verso esseri umani che hanno bisogno di aiuto.

(conferenza a Cuneo con Renè Daon e Cédric Herrou)

Si è detto che il Diritto è la sedimentazione dell’evoluzione morale di un popolo. Non è tutto: l’evoluzione può sempre rivelarsi una involuzione. Pensiamo di nuovo alle leggi fascistissime, alle leggi di Norimberga, e poi alla facilità con cui una qualsiasi autorità carismatica può far presa sul consenso della massa, facendosi legislatore di una bassezza morale senza precedenti. (È di questi ultimi giorni, negli USA, la “battaglia strutturale” tra i due poteri esecutivo –amministrazione Trump– e giudiziario – il tribunale di Seattle– intorno alla costituzionalità dell’ordine esecutivo del Muslim ban).

Ma di nuovo: la legge è neutra: non è giusta o ingiusta. Deve solo rispecchiare il progresso o il regresso morale del paese (o dell’autorità carismatica che quel paese tiene in pugno). E se non lo fa, è sbagliata.

Va da sé quanto segue. La profonda cura che dobbiamo riporre nel preservare la nostra evoluzione morale supera di gran lunga la solerzia e cavillosità dell’esegesi giuridica, al momento di applicare la legge. Perché quest’ultima è solo la copia-carbone, il calco delle qualità umane di un popolo.

È solo l’obiettiva trascrizione di quanto noi, i legislatori, siamo umani.

 

 


Ròia, ò Ròia
Ròia tant polida 
Ròia, ò Ròia
Ròia tant bèla e tant viva

De Cedric, de Choasa
Ne’n carria de mai ( e de Francesca)
Pèire-Alan, Teresa (Ricardo tanben)
Dever de solidaritat

Ròia, ò Ròia
Ròia tant fedèla 
Ròia, ò Ròia
Ròia tant bèla e tant viva

T’ai sentia Natalie
Parlar de fraternitat
En francés : “Tu es mon frère”
En italian : “Siamo fratelli”