Robert Capa : la realtà attraverso l’obbiettivo

Il mio primo approccio alla fotografia fu piuttosto semplice: mia madre aveva una Yashika FX-3 SUPER e spiegò alla me bambina, che tentava impazientemente di usare la sua macchina fotografica, come funzionasse quello strano aggeggio. Da quel giorno rimasi affascinata da quella scatoletta e decisi di provarci.

Per me, una foto era una “bella” e fatta bene se messa a fuoco, se non era né sottoesposta né sovraesposta e devo dire che, nonostante la poca esperienza e i miei 9 o 10 anni, mi sembrava di poter fare qualcosa degno di essere chiamato fotografia.

Ecco. Questa mia prima illusione venne rapidamente distrutta. Poco tempo dopo, infatti, vidi le foto di chi era veramente bravo e acquisii la consapevolezza che la mia fedele compagna CANON FT-B sarebbe stata potenzialmente in grado di scattare foto simili, ma insieme a quest’ultima giunse anche la consapevolezza di non essere una piccola Robert Capa.

Le foto veramente belle, quelle che fanno emozionare, quelle che sono talmente strane, surreali o anche quelle più semplici e apparentemente banali, ma che in realtà nascondono un’infinita ricchezza, sono scattate da chi ha una sensibilità particolare.

Giusto per contestualizzare, la ghiera che regola il tempo di apertura del diaframma ha diversi tempi che possono partire da 1/8000 secondi per arrivare a 1 secondo.

Ecco, supponiamo che una foto venga scattata con un tempo di 1/1000 o 1/2000 s, supponiamo che questa sia la foto di un miliziano repubblicano spagnolo nel 1936 e continuiamo a supporre che questo repubblicano venga colpito da una pallottola. Non essendo una statista, mi sorge spontanea una domanda: come può essere possibile che quest’ultimo riesca a fare in tempo a caricare il rullino, mettere a fuoco e preparare la foto nello stesso momento in cui una pallottola colpisce un soldato? Il “come”, per me, rimane ancora un mistero, quello che è certo è che non è da tutti.

Parliamo di Andre Friedmann o di Robert Capa, se vi piace di più.

E pensare che il mestiere del fotografo si rivelò essere il suo piano B. La sua vera passione era la  scrittura, ma fu costretto ad abbandonare gli studi per lavorare e mantenersi, quindi iniziò  lavorare nel laboratorio di uno studio fotografico della Dephot di Berlino.

Quindi sì, comincia per caso e ancora più casuale fu il suo primo incarico. Perchè dico per caso? Per il semplice motivo che quella conferenza tenuta da Trotzky a Copenhagen, che segnò la svolta per la sua carriera, non era stata programmata e che André era l’unico disponibile alla Dephot a partire con così poco preavviso.

Ma Robert Capa non era che un personaggio, nonostante sia diventato il padre del fotogiornalismo moderno, il suo vero nome era André Friedmann. All’epoca della Germania nazista, come potrete immaginare, era piuttosto difficile trovare lavoro avendo origini ebraiche. Motivo per il quale, insieme alla compagna e collega Gerda Taro, inventò il personaggio di Robert Capa: un rinomato fotografo sempre troppo impegnato per farsi vedere e riconoscere pubblicamente. Al suo servizio : un semplice fattorino che lavorava in laboratorio (André) e una giovane donna che si occupava di procurargli contatti con giornali e agenzie (Gerda).

Cosciente o meno di ciò a cui sarebbe andato incontro, nel 1936 partì per la Spagna con Gerda, dove testimoniò la guerra civile spagnola. Da questo primo servizio diventò colui che ancora oggi ricordiamo come il più grande fotografo di guerra della storia. Al di là delle critiche e delle polemiche verso questa foto, essa rimane una foto-simbolo del Novecento.

 

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Dopo la guerra civile spagnola e dopo aver perso per sempre la sua fedele compagna di vita Gerda, Capa portò avanti la sua carriera rimanendo in Europa.

 

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Attraverso il suo obbiettivo ci ha reso partecipi di una realtà ormai passata, ma comunque viva. Ci ha resi parte della realtà che ha vissuto e degli avvenimenti ai quali ha preso parte.

 

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Suo fratello, Cornell Capa, disse :

” durante i suoi 22 anni di lavoro, fu testimone oculare di avvenimenti mondiali tremendi. […] Si assunse il compito di mostrare l’inferno che l’ uomo si è creato da solo: la guerra.”

In effetti, Capa la guerra l’ha vissuta e a quanto pare l’ unica cosa che spesso lo ha salvato è stata la sua macchina fotografica, che lo ha tenuto abbastanza lontano da non fargli fare la stessa fine dei soggetti delle sue foto, ma sufficientemente vicino da poterne liberare l’anima.

“Se la foto non è buona, vuol dire che non eri abbastanza vicino”

E nel tentativo di fare “foto buone”, Capa si avvicinava tanto da rischiare più volte la sua stessa vita. Si avvicinava talmente tanto da dare l’impressione che fossero i suoi stessi occhi a scattare le fotografie, come se la realtà non fosse neanche filtrata attraverso le lenti dell’obbiettivo o dalla pellicola, ma proprio quella che vediamo nelle foto.

 

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Francesca Crotti