Non divino, ma Calvino

 

Non ci sarà ironia questa volta, e nemmeno curiosità su erotiche fantasie sessuali celate, nè epistolari o volgarità, come nel mio ultimo articolo. Non questa volta, perchè altre parole che non siano le sue sarebbero superflue, per ricordarlo.

Perché era il 19 settembre, giusto pochi giorni fa, di molti anni fa.
30, per la precisione.
Ergo, 1985.
Parte dal 6 settembre, l’inizio della fine.

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Calvino, la cui vita trabocca di soddisfazioni culturali e sociali, all’età di quasi 62 anni, viene colpito da un ictus, il primo e ultimo della sua vita, mentre si trova nella sua villa in piena pineta toscana, quella di Roccamare, presso Castiglione della Pescaia, ove sta trascorrendo le ultime vacanze prima di affrontare un gran viaggio americano tanto sognato.

E che tale rimarrà.

Un tanto sognato sogno.

Ricoverato all’ospedale Santa Maria della Scala, si tenta il tutto per tutto: operazione al cervello.
E succede quello che è solito succedere, tragico: una ripresa, e poi il crollo finale causa emorragia cerebrale.

“Dati biografici: io sono ancora di quelli che credono, con Croce, che di un autore contano solo le opere. (Quando contano,naturalmente.) Perciò dati biografici non ne dò, o li dò falsi, o comunque cerco sempre di cambiarli da una volta all’altra. Mi chieda pure quello che vuol sapere e Glielo dirò. Ma non Le dirò mai la verità, di questo può star sicura.” (Italo Calvino)

Eppure qualcosa di questo ermetico personaggio è risaputo.

Si sa che nacque il 15 ottobre del ’23, a Cuba.

Genitori italiani.
Il padre Mario, agronomo di Sanremo e anarchico.
La madre Eva, botanica di Sassari. Ah, e socialista.
Si sa che l’amore tra i due scoppiò come la guerra.
Uno scoppio dolcissimo, ad ogni modo, che portò alla nascita di Italo e Floriamo, suo unico fratello e futuro rinomato geologo.
La percora nera di famiglia – si definiva Italo – unico letterato in una famiglia ove erano le scienze a vigere.
Liceo classico. A dimostrazione che non l’hanno frequentato solo Salvini, la Canalis o la Corvaglia.
Calvino supera infatti  nel ’34 l’esame per il ginnasio e liceo “G.D. Cassini”.

Ma il primo contatto vero e proprio con il suo grande amore, la letteratura, avviene prima.
Un passo indietro. Italo dodicenne.
Possiamo immaginarcelo mentre passa in rassegna volumi, accarezzando la spina dorsale di libri polverosi.
E poi ne trova uno. E’ una questione di sguardi, è chimica, è poesia, è amore, è “Libro della giungla”, di Kipling.
Istantanea infatuazione per quei mondi esotici, per le avventure, per le sensazioni fantastiche che solo la letteratura può trasmettere, che solo un lettore solitario può vivere.
Iniziano anche le letture dei fumetti umoristici e vignette, che lo porteranno più avanti a disegnare da sé piccole illustrazioni dei suoi romanzi.

 

 

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E poi arriva un altro amore. Il cinema. Lungo tutta un’adolescenza. Intanto scoppiano non solo le parole nella testa di Calvino, ma anche la guerra. E purtroppo è più reale che mai. Finisce la Bella Epoque sanremese, scoppia la confusione per le strade e per la testa del nostro scrittore 900esco: che ideologie abbracciare?Staccarsi dall’anarchia ereditata dal padre? E una soluzione la trova. Soluzione che è sempre la stessa, da anni. Buttarsi. Nelle parole.

Tra i sedici e i vent’anni scrive poesie seguendo il modello del Montale, suo prediletto per tutta la vita. E anche in ambito politico sembra deciso ad abbracciare l’antifascismo, grazie anche al rapporto epistolare e amichevole stretto nientemeno che con Eugenio Scalfari.

Passa l’adolescenza, e ci ritroviamo un Calvino maturo e maturato, con il bel diploma da liceo classico. 1941.E vola a Torino, Università di lettere. Terzo anno subito, agevolazioni da partigiani. Politicamente ennesima svolta: partito Pci.

E poi combatte, a denti stretti. No, non è tanto per dire, Calvino combatte davvero.

Accadde così, un giorno guardò negli occhi il fratello, guardò la guerra.

“Ci arruoliamo Floriamo?”
E ci arruoliamo.

20 mesi, uno dei più aspri scontri tra partigiani e nazifascisti, a cui lo scrittore partecipò forse perchè il Pci era in quel periodo la forza più attiva ed organizzata. L’esperienza partigiana sarà alla base del suo primo romanzo, “Il sentiero dei nidi di ragno” e della raccolta “Ultimo viene il corvo”. Stile neorealistico a parte, fondamentale è la presenza, sia pure allo stadio embrionale, d’elementi tipici della produzione successiva, in particolare la dimensione fantastica e la visione fanciullesca, a mo’ del Pascoli.

1947. Finisce gli studi, Calvino, con una tesi su Joseph Conrad. E inizia la collaborazione con l’Einaudi, collaborazione che durerà tutta la vita, tra altri e bassi, tra lavori e periodi di magra, un po’ Leopardi-Stella. Finirà, come tutti i grandi amori, nel 1961.

Agosto 1950. Un uomo è stanco. Stanco della sua vita, degli scorni, del traffico, di quell’inquietudine e di quella tempesta che lo angoscia e tuttavia dalla quale egli, come le più sensibili anime, non sa separarsi. “La faccio finita”, dice, e scrive, e la fa finita davvero.

Prende sonniferi prima di andare a dormire. 1.2.3.4. Perde il conto. Quell’uomo era Cesare Pavese. Quell’uomo era amico, maestro, fratello del Calvino, il quale ne rimane sconvolto. Chissà se se l’è chiesto, Calvino. Lui che vedeva Pavese come un anima potente e forte, chissà se s’è chiesto cosa ne sarebbe stato delle anime più fragili come lui. Quel che è certo è che, sconvolto e con un peso in più che opprimeva la cassa toracica, l’anima sensibile continuò a vivere.

Un respiro positivo: l’amore. Calvino ne ebbe tra il 1955 e il 1958, quando con fervore si slancia in una storia fiabesca con l’attrice Elsa De Giorgi, moglie di Sandrino Contini Bonacossi. A mo’ di Paolo e Francesca, che un giorno leggevano per diletto, soli e sanza alcun sospetto, e come Galeotto fu il libro, per i due furono galeotte le lettere: dei due amanti esiste un carteggio conservato dal 1994 nel Fondo Manoscritti di Pavia, e in parte pubblicato dalla stessa donna, perché a quanto disse lei, d’amori così non se ne videro mai. La storia s’intrise di fosche tinte quando il marito della donna, anzichè scoprire i due baciarsi con d’innanzi un poema cavalleresco e scatenare la sua ira destinando la sua anima a Caina, scomparve misteriosamente e non diede notizie di sé, o comunque non ne diede finché non venne trovato suicida nei pressi di Washington nel 1975.
L’epistolario, tenuto segreto per 25 anni, è stato definito il «più bello del Novecento italiano». Non smette di scrivere, comunque. Forse gli è necessario, tra amore e morte, gli è davvero necessario scrivere. E viaggiare.

 

 

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Visita città, gira il mondo, la sua fama cresce, è un uomo conteso, intervistato, studiato.

 

“Lo guardavo da lontano, naturalmente elegante, con un’espressione ironica. Aveva l’aria appartata anche quando conversava con altri. Una volta gli chiesi una breve intervista, non ricordo su quale argomento. Fu gentilissimo. Quando trascrissi la registrazione rimasi colpito dal fatto che le sue brevi frasi sembravano già scritte. C’erano persino i punti e virgola.” (Scianna Ferdinando, fotografo).

 

Come un qualcosa di raro, come se si trovassero al cospetto di un elegante ed imponente ed ancor maestoso, bufalo bianco. Arriva a Parigi, la fiera maestosa. 1962. E lì l’amore si riprende lo scrittore, quando lui vede la traduttrice argentina Esther Judith Singer, detta Chichita,lavoratrice in organismi internazionali come l’UNESCO e l’IAEA. E se la sposa, nel 1964. Febbraio. Scambio di promesse nell’ufficio notarile di Calle Obispo e brindisi finale nel bar della piscina del loro Hotel Avana Libre. Semplice. Un po’ come lui.

Importante incontro è quello con Ernesto Che Guevara, a cui dedicherà due pagine dopo la sua morte in Bolivia. Secondo importante incontro, 1965, quando stringe a se per la prima volta un fagotto di coperte, contenente una piccola donna. E’ il 1965, siamo a Roma, lei viene chiamata Giovanna, Calvino, s’intende. Ancor presto per sapere che si laureerà poi a New York, dove andrà a vivere con le royalties paterne.

Che Guevara ucciso. 9 ottobre 1967, Bolivia. Lo apprese dai media, la notizia. E come quando a mancare fu Pavese, un peso ulteriore gli si posò sulle coste. Il 15 ottobre 1967 (il giorno del suo 44º compleanno) scrisse un articolo a lui dedicato che fu pubblicato in spagnolo nel gennaio 1968 sulla rivista cubana “Casa de las Americas”, nel citato numero speciale tutto dedicato al rivoluzionario. Il testo originale integrale italiano fu pubblicato in Italia solamente trent’anni dopo, nel 1998, sul primo numero della rivista “Che” della Fondazione Italiana Ernesto Che Guevara.

1972: pubblica “Le città invisibili” che sarà finalista al XXIII Premio Pozzale 1974 per la letteratura.

 

« L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. »

 

Frase tratta da quell’opera, no, non libro, O-P-E-R-A.

Un uomo che scrive parole così pesanti e colossali che non bucano la carta, non credo vi sarà più, e guardando il libro di Moccia sul mio scaffale (vecchio regalo che non ho il coraggio di spostare nè di guardare), due domande su come si è arrivati qui, me le faccio.

Calvino è morto tre settimane prima del suo sessantaduesimo compleanno; e l’Italia mise il lutto, come se fosse morto un amato principe. Un principe realista, il quale credeva “che solo una certa solidità prosaica può dare alla luce la creatività; la fantasia è come la marmellata, la devi spalmare sopra una fetta di pane. Altrimenti, rimarrà una cosa senza forma, come la marmellata, dalla quale non si ricaverà niente.”

La prima emorragia fu seguita da un intervento chirurgico che durò ore. Calvino uscì dal coma. Era disorientato: pensò che uno del personale medico fosse un poliziotto; poi si domandò se avesse subito un intervento a cuore aperto. Nel frattempo il chirurgo era diventato ottimista e persino loquace. Raccontò ai giornalisti che non aveva ancora visto una struttura cerebrale tanto delicata e complessa come quella di Calvino. Il chirurgo raccontò che si era trovato costretto a fare del proprio meglio. Dopotutto sia lui che i suoi figli avevano letto e discusso Marcovaldo. Il cervello che era capace di farli scervellare tanto doveva essere tenuto in vita per la sua rarità. Nel mese di Giugno aveva avuto quello che lui riteneva fosse un terribile mal di testa; fu il primo attacco. Inoltre, proveniva da una famiglia con una storia di debolezza arteriosa. O così scrissero i giornali.

Un furgoncino pieno di poliziotti si ferma ai piedi della collina del cimitero. “Sig. Presidente, è tutto finito. Egli ha attraversato il fiume risplendente.” Una lacrima luccica nell’occhio del Presidente in carica. “L’ultima riunione,” mormora. La piccola figura al suo fianco, con gli occhi enormi spalancati e colmi di lacrime, sussurra, “Questo significa che non ci saranno più romanzi Harlequin?” Il presidente in carica la tiene stretta. “Ci saranno sempre gli Harlequin, Mammina,” egli dice. “Ma non saranno più gli stessi. Non senza Louis L’Amour.”

 

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Centinaia d’amici di Calvino, scrittori, editori, giornalisti, dignitari locali riempiono il cimitero. Calvino ha avuto, come ha detto qualcuno, due settimane per accettare non tanto la morte ma l’incubo che è morire. L’ultimo capitolo di Palomar inizia così,

 

“Il sig. Palomar decide che d’ora innanzi egli si comporterà come se fosse morto, per vedere come se la cava il mondo senza di lui.”

 

All’improvviso, mentre si accendono una dozzina di telecamere, la scatola di legno scuro e lucido, contente Calvino, appare nell’atrio. Certamente, è morto ma, com’egli ha scritto

 

“Prima di tutto, non devi confondere l’essere morto con il non essere, una condizione che occupa il vasto spazio di tempo prima della nascita, apparentemente simmetrico con l’altro, ugualmente vasto spazio che segue la morte. Infatti, prima della nascita, facciamo parte dell’infinita possibilità che potranno o non potranno essere realizzate; mentre, una volta defunti, non potremo realizzarci né nel passato (al quale adesso apparteniamo completamente ma sul quale non abbiamo più nessun’influenza) né nel futuro (il quale, anche se è influenzato da noi, resta per noi proibito).”

 

Con un fracasso, la scatola viene abbassata dentro la vasca da bagno. Poi, un arcobaleno copre tutto il cielo ad est. Per i Romani e gli Etruschi, i primi abitanti della zona attraverso la quale stiamo viaggiando, l’arcobaleno era messaggero infausto di cambiamenti imminenti negli affari umani, la morte di re, città, il mondo. Il Tempo può finire adesso. Ma,

 

“Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante, – pensa Palomar,- e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non se ne vede più la fine. Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti, non penserà più d’essere morto. In quel momento muore”

 

Così finiscono “le mie ultime meditazioni sulla Natura,” e Calvino e la Natura, adesso, sono una cosa sola, o Una.

 

 

Arianna Mariolini

 

 

Arianna Mariolini

Mi chiamo Arianna Mariolini (Ary). Sono nata il 6 gennaio 1998 a Clusone, in provicia di Bergamo, ma attualmente risiedo a Pisogne, un bellissimo borgo bresciano. Dal settembre del 2012 frequento il Liceo classico Decio Celeri di Lovere. Le mie principali passioni sono la letteratura e la musica...