Carducci, poeta d’estate

Ci sono persone che sembrano lasciare un’orma gigante quanto il mare, quando se ne vanno. Delle orme in cui gli altri annegano, perdendone i margini, perdendo la speranza de l’altezza. E gli altri che vengono dopo sembrano solo epigoni o non abbastanza, un poco insulsi.
Come le orme del Monti, in cui Foscolo sembrava non trovare il proprio piccolo posto (quando invece ora sono i versi del poeta di Zacinto a far tremare vene e polsi, mentre il Monti viene ormai declassato, considerato troppo pomposo e talvolta ridicolo).
Come le orme del Carducci, ai tempi un grande poeta, imparato a memoria e recitato con voce infantile anche nelle cadute in realtà più enfatiche e patetiche (nell’eccezione greca del termine, ovvero “pathos”, sentimentale, sofferto).
Ora purtroppo superato con un colpo di pagine che buttano nell’oblio versi che meritano, meritano anche solo l’amore dei ragazzi. Chè la poesia ha bisogno d’amore giovane.

Ho pensato molto a cosa scrivere riguardo a questo maestro delle parole. Avrei potuto raccontarne la vita, ma mi sembrava scontato e facilmente reperibile. Ho preferito piuttosto dare spazio alle sue, di parole. Alle parole che ha saputo scegliere, perchè questo era il suo compito. Scegliere le parole. La bellezza comincia da lì. Dare spazio ai suoi versi dimenticati in qualche libro poco aperto, sperando che qualcuno ora li legga qui, per dar loro tempo. Dar loro spazio.

 

 

E così mi è capitato, mentre sfogliavo il libro in un raptus irripetibile pre maturità, di imbattermi in qualche versicolo, che mi ha lasciato una piccola cicatrice.
Sbam, e la bellezza ha colpito, e nell’album ho una nuova figurina.
Giosuè Carducci.
Idillio maremmano.
Settembre, 1872.
La compose nell’estate viva dell’uva.

“Co ‘l raggio de l’aprile nuovo che inonda
roseo la stanza tu sorridi ancora
improvvisa al mio cuore, o Maria bionda;
e il cuor che t’obliò, dopo tant’ora
di tumulti oziosi in te riposa,
o amor mio primo, o d’amor dolce aurora.”

La bellezza di quest’uomo che.. Che bisogna immaginarselo. 37 anni, un periodo in cui tiri somme di progetti, amori sbagliati, imprevisti e matrimoni e figli, suocere cognate mal di testa ricorrenti.
E quest’uomo che magari è lì che scrive, il ciglio abbassato, o magari è lì che fissa il vuoto che diventa poesia, quando l’aprile novello bianco e di rosa inonda la stanza. E quello che diventa un progetto per guardare avanti diviene memoria per ritornare indietro, per ritornare ai 17, 18, 19 anni, con quel primo batticuore, quel primo rossore, quei primi palpiti che non ti sai nemmeno bene spiegare tu. Che nascono e muoiono come l’estate, con l’oro in bocca, come l’estate!
E quello che prima era tormento-e non dormi e non mangi e che ore sono la notte quando osservi il soffitto e che caldo ma sarà caldo e che freddo e le sue braccia a riscaldare che non bastano e non ci sono e non bastano mai-diviene, finalmente, riposo. Lei,così lontana, vaga, Leopardiana, ritorna alla mente, ma senza fretta. Ecco, bisogna immaginarselo senza fretta, come una nennia che culla, la berceuse che torna danzando, e Carducci sorridere vedendola, alfine, posarsi. Senza rumore, senza fuoco. Come neve.
Amor mio primo da ragazzo, senza tregua e or con posa.

“Ove sei ? senza nozze e sospirosa
Non passasti già tu: certo il natio
Borgo ti accoglie lieta madre e sposa;
Ché il fianco baldanzoso ed il restio
Seno a i freni del vel promettean troppa
Gioia d’amplessi al marital desio.
Forti figli pendean da la tua poppa
Certo, ed or baldi un tuo sguardo cercando
Al mal domo caval saltano in groppa. “

E chi sa cosa farai tu domani, Maria Bionda. Chissa cosa farai tu ora, con qualche anno in più e una bellezza che esiste e restiste con capo renitente sotto le piaghe del tempo.
Ti sarai sposata, Maria bionda? E chi è lui, se io non sono, se non son io? Come si chiamerà, e lo sa che ogni notte giace con il primo mio amore? Certo che sarai sposata, con quei fianchi che non potevano non attrarre, baldanzoso e fermo, con quel seno di giovinetta stretto nei vestiti restii, certo non avresti potuto rimaner sola, troppo le tue bellezze richiamavano alle gioie degli amplessi amorosi. E quanti figli, Maria Bionda, quanti figli hai avuto tu? Quanti con quegli occhi che paion cielo, quanti con i ricci color del grano, e figlie belle con il fiore colto della tua giovinezza rosea, quante tu, Maria? Certo loro sui cavalli andranno, aggrappandosi ai crini, guardandoti di sottecchi per intender da te sguardo d’approvazione, chè la lor cagione sei tu di fierezza e lor di te.

Allitterazione della ssensuale, Maria.

“Com’eri bella, o giovinetta, quando
Tra l’ondeggiar de’ lunghi solchi uscivi
Un tuo serto di fiori in man recando,
Alta e ridente, e sotto i cigli vivi
Di selvatico fuoco lampeggiante
Grande e profondo l’occhio azzurro aprivi!
Come ‘l ciano seren tra ‘l biondeggiante
Òr de le spiche, tra la chioma flava
Fioria quell’occhio azzurro; e a te d’avante
La grande estate, e intorno, fiammeggiava;
Sparso tra’ verdi rami il sol ridea
Del melogran, che rosso scintillava.
Al tuo passar, siccome a la sua dea,
Il bel pavon l’occhiuta coda apria
Guardando, e un rauco grido a te mettea.”

 

 

E qui, sbam, apoteosi di bellezza.

Se i rimandi Leopardiani prima erano ancora visibili dietro la nebbia dell’aemulatio, ora Maria non ricorda più Silvia. Quella Silvia vaga, di cui conosciamo solo le nere chiome, questa Maria che sembra porci con garbo e pudicitia il fianco e i capelli e quegli occhi, i colori dei suoi nei e delle sue voglia, il camminare maestoso e ferino, con tutto il Mediterraneo in sè, e i superbi colori chiari del Nord.
Com’eri bella, Maria, ti ricordi, e ti ricordi poi di noi?
Ti ricordi

quando ti perdevi tra il grano tanto, tanto più alto di te -ridere, ridere- e color de tuoi capelli-capelli color del grano, non esiste bellezza più grande, e mi piaceva vedere i movimenti delle lunghe spighe e tentar il gioco d’indovinare dove tu fossi, e alla fine eri sempre nel solito posto Maria, Maria e lo sei ancora, Maria.
E te ne uscivi con questo mazzo di fiori tra le braccia, blu rosa giallo, alta e ridendo (è l’ultima immagine che abbiamo della nostra Silvia che diviene evanescente), ridendo, e poi aprivi i tuoi occhi- i tuoi occhi. Azzurri. E tra quel biondo dei capelli, e tra quel biondo del grano, l’azzurro implodeva, azzurro d’iridi, azzurro cielo, iridi capelli grano cielo e poi ancora iridi e poi come un’esplosione, che pare il tramonto a vederti, che pare il limite dove la natura implode e colloca bellezza.
Era estate, d’intorno, sempre l’estate. E par che nell’immenso arrido viso della pioggia-se, solo, piove- s’immilli il tuo sorriso. E faceva caldo nella fresca sera, Maria bionda, io non so, sarà stato quell’azzurro e quel biondo, non so, Maria mia, sarà stato quello sotto il corpetto che batteva e che chiasso poi, sarà stato..
Rideva, sarà stato
il sole, tra i rami verdi, rideva, e allora ridevi anche tu, ma con quella leggerezza, con quella limpidezza delle cose deboli che sanno farsi forti, con quella cattiveria della ribellione fragile e afosa.
E al tuo passare parevi Diana fra le fronde.
Te ne andavi sentendoti lodare, vestita di erotica umiltà, tanto che il pavone stesso ritirava la sua vanesia per offrirti lo spettacolo delle sue penne, chiamandoti alla sua visione cantando un grido rauco e fioco, per non spaventarti nella tua quiete, che aveva un non so che di aureo.

“Oh come fredda indi la vita mia,
Come oscura e incresciosa è trapassata!
Meglio era sposar te, bionda Maria!
Meglio ir tracciando per la sconsolata
Boscaglia al piano il bufolo disperso,
Che salta fra la macchia e sosta e guata,
Che sudar dietro al piccioletto verso!
Meglio oprando obliar, senza indagarlo,
Questo enorme mister de l’universo!
Or freddo, assiduo, del pensiero il tarlo
Mi trafora il cervello, ond’io dolente
Misere cose scrivo e tristi parlo.
Guasti i muscoli e il cuor da la rea mente,
Corrose l’ossa dal malor civile,
Mi divincolo in van rabbiosamente.
Oh lunghe al vento sussurranti file
De’ pioppi! oh a le bell’ombre in su ‘l sacrato
Ne i dí solenni rustico sedile,
Onde bruno si mira il piano arato
E verdi quindi i colli e quindi il mare
Sparso di vele, e il campo santo è a lato!
Oh dolce tra gli eguali il novellare
Su ‘l quieto meriggio, e a le rigenti
Sere accogliersi intorno al focolare!
Oh miglior gloria, a i figliuoletti intenti
Narrar le forti prove e le sudate
Cacce ed i perigliosi avvolgimenti
Ed a dito segnar le profondate
Oblique piaghe nel cignal supino,
Che proseguir con frottole rimate
I vigliacchi d’Italia e Trissottino.”

Carducci ritorna alla realtà. Ritorna nella veste dei suoi anni, nel suo essere poeta, in quella stanza buia dove Maria va dissolvendosi, mai esistita in quelle sudate mura.
Il biondo dei capelli era solo un raggio di sole invadente, pronto a trafiggere la tenda.

Azzurra, quella.

 

 

 

Ma quanto, quanto sarebbe stato bello, Maria, sposarti, Maria bionda, piuttosto che fare il passero solitario? Saremmo stati felici, a modo nostro, con quei 17 anni un po’ sgualciti come cartolina appesa al collo, con quel tuo superbo modo di camminare umilmente, con quella mia penna che non avrei mai sollevato. Ci vuole poco per essere felici, ma quella felicità che vuol dire sicurezza, sanità, con poche certezze salde e ferme che ci rendon malati. Il giorno a lavorare, a coglier l’uva, le sere d’estate a parlar ai figli del faticoso oprar, tessere alla tela vecchi miti e qualche fiaba, rimboccare due coperte e poi magari anche fare l’amore, che bello Maria, l’amore con te, che sia grano, che sia cielo o che sia biondo, un amore con il sapore delle vigne di giorno.
Dimenticare il male che pervade il mondo, la mancanza di certezze, questo tedio e questa malinconia, ma vivere la semplcità di un Adriatico verde, lavorando e obliando e tessendo.
Quanta bellezza nel non essere passero solitario, nel dimenticare, nel non scrivere per tralasciare, per lasciare andare, per una negligenza da non colmare e uno spazio da non riempire. Senza versi da tirare, a volte con fatica, a volte con il male che ci trafigge quand’è sera, senza una Luna ignara e un sabato che reca speranza, senza delle tamerici o scaglie di mare, senza per forza volerti rendere immortale e..

L’amore, Maria, far l’amore- le vigne, il grano e i fianchi e il seno e

Eppure, Maria..

 

 

A cura di Arianna Mariolini

 

Arianna Mariolini

Mi chiamo Arianna Mariolini (Ary). Sono nata il 6 gennaio 1998 a Clusone, in provicia di Bergamo, ma attualmente risiedo a Pisogne, un bellissimo borgo bresciano. Dal settembre del 2012 frequento il Liceo classico Decio Celeri di Lovere. Le mie principali passioni sono la letteratura e la musica...