“My life has been stolen from me”

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“Tuesday

Dearest,

I feel certain I am going mad again. I feel we can’t go through another of those terrible times. And I shan’t recover this time. I begin to hear voices, and I can’t concentrate. So I am doing what seems the best thing to do. You have given me the greatest possible happiness. You have been in every way all that anyone could be. I don’t think two people could have been happier till this terrible disease came. I can’t fight any longer. I know that I am spoiling your life, that without me you could work. And you will I know. You see I can’t even write this properly. I can’t read. What I want to say is I owe all the happiness of my life to you. You have been entirely patient with me and incredibly good. I want to say that — everybody knows it. If anybody could have saved me it would have been you. Everything has gone from me but the certainty of your goodness. I can’t go on spoiling your life any longer.

I don’t think two people could have been happier than we have been.

V.”

Martedì

Carissimo,

sento con certezza che sto per impazzire di nuovo. Sento che non possiamo attraversare ancora un altro di quei terribili periodi. E questa volta non ce la farò a riprendermi. Comincio a sentire le voci, non riesco a concentrarmi. Così faccio la cosa che mi sembra migliore. Mi hai dato la più grande felicità possibile. Sei stato in ogni senso per me tutto ciò che una persona può essere. Non credo che due persone avrebbero potute essere più felici, finché non è sopraggiunto questo terribile malessere. Non riesco più a combattere. Lo so che sto rovinando la tua vita, che senza di me tu potresti lavorare. E lo farai, lo so. Vedi, non riesco nemmeno a esprimermi bene. Non riesco a leggere. Quello che voglio dirti è che devo a te tutta la felicità che ho avuto nella mia vita. Hai avuto con me un’infinita pazienza, sei stato incredibilmente buono. Voglio dirti che – lo sanno tutti. Se qualcuno avesse potuto salvarmi questo qualcuno saresti stato tu. Tutto se ne è andato via da me, tranne la certezza della tua bontà. Non posso più continuare a rovinarti la vita.

Non credo che due persone sarebbero potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi.

V.”

Furono proprio queste le parole che Virginia Woolf lasciò al marito Leonard prima di suicidarsi, una commovente lettera in cui l’amore più puro e sincero si fonde alla sua perenne lotta con una vita che le era stata quasi imposta, nella quale non si riconosceva.

Parliamo proprio di quella donna nata a Londra il 25 gennaio 1882 con il nome di Adeline Virginia Stephen che, con il fratello maggiore Thoby, dette inizio alla sua produzione letteraria scrivendo di storie inventate e vicende familiari sul giornale domestico, da essi stessi inventato, Hyde Park Gate News.

 https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/2/23/George_Charles_Beresford_-_Virginia_Woolf_in_1902.jpg
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Ma a soli 13 anni, la sua vita fu travolta da tragici eventi che causarono il suo primo crollo nervoso: nel 1895 la madre morì, due anni dopo morì la sorella Stella, infine nel 1904 perse anche il padre e questo la portò a tentare il suicidio per la prima volta.

Tutto era cambiato rispetto a quando scriveva per Hyde Park Gate News : le sue scarpette da bambina non le calzavano più, così come i vestiti, i capelli erano cresciuti ed era bene acconciarli a modo; qualcosa era decisamente cambiato in lei, era cresciuta ormai, era stata costretta a crescere. Tutto cambiò! Fatta eccezione per la sua vocazione e la sua passione per la letteratura. Fu così che nel 1905 cominciò la sua carriera come giornalista e saggista per il giornale londinese Times.

Così cominciò la sua avventura nel mondo della letteratura. Dopo la morte del padre si trasferì con la sorella maggiore Vanessa, in quel quartiere di Londra che sarà fondamentale per lei: Bloomsbury.

Adeline Virginia, insieme ai fratelli Thoby e Adrian e alla sorella Vanessa, sarà il fulcro di un gruppo di intellettuali che si ritrovavano in quelle “serate del giovedì” al Bloomsbury Group. Proprio in una di queste serate, conobbe quello che sarebbe diventato suo marito: Leonard Woolf.

Fu senza ombra di dubbio una convinta femminista. Aveva cominciato a dare ripetizioni serali a delle operaie in un collegio di periferia, si unì al movimento delle suffragettes e più di tutto: pubblicò il saggio Una stanza tutta per sé.

“Chiamatemi Mary Beton, Mary Seton o Mary Carmichael o come meglio vi piace, non ha alcuna importanza”

Mary inizia a raccontarci di quella giornata di ottobre in cui, gironzolando per un’ipotetica Oxbridge, le venne vietato di entrare nella biblioteca dell’università perché non c’era nessun uomo al suo fianco ad accompagnarla.

Questa totale mancanza d’indipendenza, impediva alle donne di potersi dedicare a pieno alla scrittura, alle proprie passioni, perché tutto il loro lavoro sarebbe stato sottoposto al serio e stimabile parere di uomini che, stretti nel loro panciotto, erano in realtà spaventati di quello che quelle menti avrebbero potuto pensare, di quello che sarebbero riuscite a fare se solo avessero avuto la libertà di pensare. Per non parlare dell’istruzione! Non tutti potevano permettersi di mandare i propri figli all’università di Cambridge e di sicuro questo privilegio spettava ai figli maschi in primis.

Con un pizzico di ironia, anzi di amara ironia, tenta di disintegrare quelle ostinate convinzioni basate su pregiudizi, per poter dare alla donna la dignità che le spetta. Ed è proprio quando si possiede una stanza tutta per sé dove poter pensare, ballare, cantare, immaginare e scrivere, e almeno 500 sterline all’anno, che la donna ha le stesse possibilità dell’uomo.

Perciò vi chiedo di scrivere ogni sorta di libri, su qualunque argomento, senza dubitare, per quanto triviale o per quanto vasto vi possa sembrare. In un modo o nell’ altro, spero che un giorno avrete denaro sufficiente per viaggiare e per oziare, per contemplare il futuro o il passato del mondo, per sognare davanti ai libri e vagare per le strade e lasciare che la lenza del pensiero scenda sempre più in fondo al fiume. “

E pensare che se fosse nata un secolo dopo, tutto questo lo avrebbe avuto!

Per quanto io personalmente detesti definire i “ruoli” (come se questi fossero da decidere, come se le persone, indipendentemente dal sesso, avessero una funzionalità e un’ utilità definita e descritta da ruoli), Virginia di sicuro non si ritrovava in quello che le era stato assegnato e decise di disfarsene.

Vi ho già detto che Shakespeare aveva una sorella; ma non la dovete cercare nelle biografie del poeta. Ella morì giovane; ahimè non scrisse mai una parola. Giace seppellita là dove si trova oggi la fermata degli autobus, presso Elephant and Castle. Ora io credo che questa poetessa, che non scrisse mai una parola e venne sepolta presso un incrocio, vive ancora. Vive in voi e vive in me, e in molte altre donne che non si trovano qui questa sera, perché stanno a casa, lavando i piatti e facendo dormire i bambini. Tuttavia essa vive; perché i grandi poeti non muoiono; sono presenze perenni; hanno bisogno soltanto di un’opportunità per tornare fra noi, in carne e ossa. Ora questa opportunità, mi sembra, siete finalmente in grado di offrirgliela voi.”

E oggi siamo veramente e finalmente in grado di offrirgliela noi.

Nonostante i crolli emotivi, le nevrosi, i tentativi di suicidio falliti (e il terzo, ahimè, riuscito), sembra proprio che Virginia vivesse due vite. Sembra che stanca della vita marcata da svariati lutti e da crisi interiori, l’unica soluzione sia stata solo la sua stanza: quella stanza tutta sua, che noi banalmente oggi chiameremmo ufficio o studio, ma che per Virginia era “la stanza tutta per lei”, dove poteva fare finta di essere Mrs Dalloway, Mary Beton, Orlando e tanti altri personaggi.

Nicole Kidman e Stephen Dillane nel film The Hours, 2002